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sabato 18 aprile 2020

I CANI DI BISSAU (2)

AVVOLTOI A COLAZIONE E CANI A CENA

Settembre volgeva al termine e l'ONG che pagava l'albergo avrebbe cessato di farlo a fine mese. Urgeva trovare una casa in affitto, ammobiliata per giunta, perché mai avrei avuto il tempo di occuparmi dell'acquisto di elettrodomestici e suppellettili. Cadde come manna dal cielo un annuncio di ricerca di affittuario per una casetta indipendente abbastanza centrale con possibilità di acquisto congiunto del mobilio completo. Fu affare fatto senza andare per il sottile. Ricordo che mi sembrò  esoso il prezzo del ferro da stiro,. Trasloco emozionante il 1 ottobre. Pazienza per il cancelletto d'accesso ballerino, il giardino ingombro d'erbacce, i gradini sgretolati e l'interno buio a mezzogiorno, tutto in perfetta sintonia con l'atmosfera della città. Ereditai anche l'empregada, cioè la signora delle pulizie e l'indispensabile guardiano notturno, che fu licenziato dopo poche settimane in quanto probabilmente in combutta con un tristo figuro che fece capolino in sala alle tre di notte e, spaventato sorprendentemente dalle mie vive rimostranze (mi ero alzata casualmente per bere), scappò a gambe levate con la mia cartella di lavoro piena di documenti preziosi, inservibili per lui. Infatti la ritrovai in un fosso a poca distanza il mattino successivo all'incursione, che tuttavia mi agitò alquanto. Fortunatamente avevo avuto a che fare con un dilettante, pure fifone.
Mi chiesi se rientrando stremata la sera precedente dall'ufficio non avessi lasciato io stessa le chiavi nella serratura esterna del portoncino, poiché non vidi segno di effrazione. Chiaro che il guardiano dormisse o avesse lasciato fare sperando di guadagnarci qualcosa anche lui.

Altra disavventura mi accadde poco dopo, e l'unica responsabile fui io in tal caso.
Una sera mi accorsi di avere dimenticato una bottiglia di birra sul bancone del negozio vicino e decisi di andare a reclamarla. Uscii di fretta a piedi e mentre mi sbattevo dietro la porta sentii il tintinnio delle chiavi appese all'interno... Mi si gelo' il sangue. Le finestre erano tutte al pian terreno ma avevano sbarre. L'accesso al retro del giardinetto era sbarrato e vi si poteva giungere soltanto passando dal retro della cucina. Così non solo non trovai la birra ma rischiai di dare fuoco alla casa perché, come spesso accadeva, quella sera mancava la corrente ed io avevo acceso le solite candele. Scoppiò un temporale; dal marciapiede guardavo una fiammella alla finestra contorcersi ma non spegnersi al vento e maledicevo la birra e me stessa. La mattina seguente alle 7, quando finalmente rientrai in casa dopo una notte di incubi trascorsa come rifugiata su un divano nella casa di un collega medico del Follerau e grazie alla puntualità  dell'empregada, vidi che dei fogli pericolosamente vicini ad una candela ormai spenta erano bruciacchiati. Nella malasorte ebbi una bella fortuna: la pioggia che mi aveva infradiciata aveva anche salvato non solo la casetta ma anche il mio incarico e la mia reputazione professionale.

A prescindere da questi spiacevoli incidenti di percorso stavo cominciando a carburare ed entrare nel mío ruolo; ero più disinvolta nel ricevere visitatori e colleghi di altri progetti e nel coordinare i miei collaboratori.
Peccato che nell'aprire la porta ogni mattina verso le 8 il primo colpo d'occhio includesse un gran frullar d'ali nere come la pece sopra i ventri gonfi di enormi cassonetti simili a vasche, traboccanti di rifiuti d'ogni genere: erano volenterosi avvoltoi, che in Africa suppliscono insieme ai maiali (assenti nei paesi musulmani come la Guinea Bissau) alla carenza dei servizi dei netturbini. Orribili crani pelati curvi sul pasto e un vago fetore di marciume non erano un augurio di buongiorno gradito.
Si era inoltre in pieno sbocciare di casi di colera. Tuttavia quando telefonai dall'ufficio all'agenzia comunale responsabile per la raccolta rifiuti la mia sentita protesta fu accolta  e zittita da una lapidaria replica: signora, dispongo di un solo camioncino per tutta la città. Faccio quel che posso. Mi scusai e riappendendo il ricevitore mi augurai che l'appetito dei rapaci aumentasse. Non so se ciò si verificò ma certamente ricevettero un valido aiuto dalle gang di famelici cani randagi che al calar della notte iniziavano scorribande indiavolate davanti a casa e si contendevano i brandelli alimentari che attorniavano i cassonetti. Li sentivo ululare su e giù per la strada padroni incontrastati del territorio fino a tarda ora. Dopo cena li sorvegliavo dalle fessure delle persiane, nel timore che potessero sconfinare nel giardinetto. E poi mi abituai al loro concerto serale che si sovrapponeva alla musica che sgorgava salvifica dal Sony.
Ma quel che contava di più era che ormai intravedevo il cammino da percorrere per sviluppare la strategia per la seconda fase del progetto. Mi fu preziosa l'esperienza della mia militanza politica e il lavoro pedagogico in quanto  ex-insegnante di adolescenti. Alcuni contatti li ereditai dal mio predecessore: un'assistente sociale che aveva seguito e offerto supporto ad un gruppo di prostitute, un soldato in gamba rispettato e stimato dai commilitoni, e qualche "fanadore", cioè quegli uomini incaricati dei riti di iniziazione per i ragazzi al passaggio della pubertà, che tra le varie cerimonie e sessioni di formazione in vista della maturità sessuale comportava anche la circoncisione con strumenti spesso non sterilizzati e usati su vari individui. Con ovvio pericolo di infezioni, setticemie e non solo, di eventuale trasmissione di malattie sessualmente trasmissibili (MST) e forse dell' HIV. In seguito il rischio di questo meccanismo di trasmissione si rivelò pressoché vicino a zero. Il grosso delle seroconversioni dipendeva da rapporti eterosessuali, date le abitudini assai permissive sia maschili che femminili. Accantonai  per il momento la questione omosessualità, che non sarebbe stata facilmente affrontata. C'era già abbastanza carne al fuoco. Per quanto riguardava i riti di iniziazione delle ragazze, purtroppo questi culminavano con l'escissione più o meno  radicale del clitoride. Chi eseguiva l'operazione con coltelli "consacrati dalla tradizione" passati da madre a figlia erano le "fanadoras", donne anziane che godevano di reverenziale rispetto. Grazie all'assistente sociale riuscii a conoscerne una che abitava in un quartiere dela città (molte volte abitano nei villaggi), ad entrare nelle sue grazie e ottenerne la fiducia. Chi mi aiuto' nel comunicare con lei fu la cara Manuela, segretaria tuttofare, perché ancora non capivo bene il crioulo , una mistura di portoghese e lingue locali. In Guinea Bissau, che ha una superficie di sole 36.000 km2, ci sono almeno una decina di gruppi etnici con relativa lingua e cultura, l'una distinta dalle altre.

Nel frattempo cercavamo contatti con giovani nei quartieri e preparavamo una pubblicazione da distribuire nelle scuole, nella quale il piatto forte era la penosissima foto in bianco e nero di un uomo malato di AIDS terminale, scheletrico, che era stata fatta all'Ospedale del Raoul Follerau, in quanto ancora gran parte della popolazione non credeva all'esistenza di una malattia chiamata AIDS e trasmissibile principalmente per via sessuale. Le tesi cospirazioniste abbondavano.. Non so quanto quell'immagine fosse convincente. dato l'alto tasso di mortalità di TBC nella popolazione, ma la cosa era stata decisa prima del mio arrivo.

Sarebbe lungo elencare il repertorio di "credenze" negazioniste diffuse per spiegare la prevalenza delle MST: ricordo solo l'enjambent cioè lo scavalcare qualcosa di impuro a terra, come un rivolo  di urina animale ad esempio. " Ecco perché ho la gonorrea!" Frequentissimo sentire discorsi del genere a detta dei miei informatori.. Le MST provocano lesioni che facilitano la trasmissione delll'HIV.
Concludo la parentesi epidemiologica  spiegando che l'HIV2, diffuso in Guinea Bissau e in Africa occidentale, differisce dall'HIV1 (presente in Europa USA  Africa australe e centro-orientale e Asia) in quanto è meno aggressivo, ha un periodo di latenza più lungo e una minore efficienza nel contagio, anche perinatale.

Ormai il 1 dicembre, giorno dedicato all' AIDS, si avvicinava e molte delle ONG e perfino la Commissione per la lotta all'AIDS del Ministero della Sanità propendevano per cancellare le celebrazioni previste a causa dell' epidemia di colera. Noi del CECOMES, questo il nome del nostro progetto, ci eravamo spesi a preparare manifesti, volantini educativi, cartelloni e soprattutto avevamo già pagato un team di teatro di strada perché preparasse e rapprentasse una piece centrata sulle terribili conseguenze che la leggerezza di costumi può irmplicare. Avevamo già pubblicizzato l'avvenimento andando a Bafata, a circa 100 km da Bissau, tra la popolazione, nel cui centro culturale si dovevano svolgere le ceebrazioni e la rappresentazione.Mi opposi fermamente quindi ad annullare il tutto. Temevamo fortemente tuttavia un clamoroso flop.

Il 30 novembre ci recammo con la sgangherata Land Rover a Bafata con tutto ill
materiale e un megafono, percorrendo la città reclamizzando l'evento con codazzo di ragazzini eccitati e urlanti. La sera andammo ad attaccare i manifesti in giro per la città e finalmente attendemmo  che accadesse ciò che doveva accadere.
Fu un insperato trionfo. Perfino il Primo Ministro arrivò e lodo l'iniziativa.
Unico neo nella mia giornata di gloria: oberata di lavoro avevo pregato l'amico Jorge funzionario OMS di far stampare lui i bigliettini d'imvito da spedire alle varie rappresentanze ufficiali e al governo. Il furbastro aveva  ottemperato "dimenticando" di sottolineare  il nostro essenziale contributo come progetto UE. Questo mi fu più tardi gentilmente rimproverato dallo stesso Delegato: tacqui, troppo lungo spiegare.
Ma fu una grande soddisfazione che mi fece superare a cuor leggero le ultime amenità guineennes: numerose invasioni serali su gran parte del pavimento di casa di giganteschi grilli neri (mi sembrarono grilli) da sterminare imprecando con gli zoccoli Scholls  prima di pensare alla cena, e per ultimo regalo il taglio della luce per errore della società elettrica effettuato opportunanemente un venerdì sera per tutto un fine settimana.

Partii da Bissau poco prima di Natale e giurai a me stessa che sarei si tornata a lavoraci ma non certo come capo progetto. Ed infatti nel 1995 e nel 1996/7 mi occupai della parte socio- antropologica e della componente di educazione sanitaria.

mercoledì 8 aprile 2020

REQUIEM PER UN'AMICA

REQUIEM PER UN'AMICA IN CAMMINO VERSO L'ADE

Aqsu boliviano


Ci siamo conosciute nel 1994. La prima immagine ancora vivida che ho di te è  quella di un visetto con un'espressione tra maliziosa e curiosa che fa capolino dalla porta appena schiusa di un ufficio del CESTAS, l'ONG che ci aveva arruolato per una missione in Guinea Bissau, breve la tua, più lunga la mia.
Era primavera inoltrata a Bologna e il briefing è durato qualche giorno. Abbiamo fatto lunghe passeggiate andando o tornando dal ristorante la sera in strade anonime e grigiastre: non era bella la zona intorno all'ufficio. Poi ci fu la prova del fuoco che sigillò la nostra nascente amicizia. Arrivate insieme a Bissau restammo di stucco di fronte a una città che sembrava sul punto di sgretolarsi, tanto vetuste e cadenti erano strade, case, piazze: trasudavano una tristezza quasi immane, arcana. Ben altra  era l'immagine tua e mia dell'Africa finora conosciuta, tu in Mozambico, io sia in Mozambico che in Africa Occidentale, così variopinta e festosa pur nella povertà di case in banco. Fu un'esperienza iniziatica e sofferta. Ricordo un solo momento di esplosione nostra di allegria ironica quando, invitate a cena da Jorge..., funzionario OMS, non so cosa ci prese e saltammo su un tavolo o un qualche aggeggio ad almeno un metro dal pavimento e guardandoci ridendo cominciammo a cantare LOTTA LOTTA DI LUNGA DURATA  ecc agitando il pugno chiuso. Jorge e la moglie, una paciosa congolese, devono aver pensato: ma che matte mandano dall'Italia come esperte!

Ci vedemmo l'estate successiva a Salinas, poi a Itaca, eravamo amiche di viaggio e di vacanze assolate. Infine ti innamorasti di Sirolo, che era il luogo che preferivo quando rimanevo in Italia d'estate.
Per fortuna l'hai conosciuta prima della criminale lottizzazione che l'ha sfigurata e squartata negli ultimi dieci anni. Arrivavi appena ti avvisavo che stavano cominciando a sbocciare le ginestre. Sentivo al telefono la tua eccitazione e ti vedevo brillare gli occhi mentre pregustavi il piacere di tuffarti in acque ancora decenti guardando la rupe scoscesa che diventa in giugno un immenso fascio di fiori gialli immersi nel verde cupo dei pini e dei lecci. O diventava? Non ci vado più da anni.
Scendevamo all'Hotel Beatrice, un po' fuori dall'abitato, e prendevamo una stanza doppia che guardava verso la campagna, e il mare si vedeva appena, sotto la rupe a picco. La sera dopo cena risalivamo la strada verso il campo di grano ormai maturo lì a due passi per vedere le lucciole zigzaganti nel buio.
E la giornata intera la passavamo al mare: tu ti piazzavi su un lettino al sole, io preferivo il mio ombrelletto e una capulana  sui sassi, entrambe con libro e giornale. 
Poi il pendolo oscillava verso Roma. Quante volte mi hai accolto in partenza o di ritorno dalle mie missioni di lavoro, cui tu avevi rinunciato per dedicarti alla scuola. Quanti brindisi  con vino rosso e sottofondo musicale, quante passeggiate poi se la serata era calda a Santa Maria di Trastevere.  

Poi una mattina di gennaio ti ho chiamato da Conakry e mi hai annunciato la diagnosi della tua malattia. Avevo notato negli ultimi incontri una strana lentezza, una volta mi ero anche arrabbiata in
montagna perché rimanevi sempre indietro mentre dovevamo affrettarci per prendere l'ultimo autobus per l'hotel. E continuavi a ripetere: ma perché mi devi far correre così? Non capivo che ti stesse succedendo.
È arrivata la malattia a spegnere poco a poco il tuo luminoso sorriso, il brillio di gioia e piacere nei tuoi occhi bruni, a bloccare la tua sete di esplorare ancora e ancora il mondo.
Addio cara Daniela, Addio amica.



giovedì 2 aprile 2020

I CANI DI BISSAU

1994: A BISSAU TRA HIV E COLERA*

Era la fine di agosto e dopo un anno di disoccupazione angosciante attendevo la telefonata di una ONG specializzata in interventi sanitari che mi desse il via libera per partire per la Guinea Bissau, dove era già in piedi un loro intervento di educazione sanitaria a livello nazionale per la prevenzione dell'infezione da HIV, pericolosamente diffusa in ampi strati della popolazione soprattutto urbana. Avevo passato tutta l'estate a studiare a tempo pieno per prepararmi all'incarico di capo progetto in un campo per me nuovo, specifico ma anche complesso, di natura non solo sanitaria ma anche sociale e antropologica, e a compiti di gestione e amministrazione.
Credo fosse il 30 di agosto, quando la maggior parte dei rientri dalle ferie si esauriva, che infine misi le valigie sul treno per Roma e poi sull'aereo per Bissau: incarico  provvisorio di tre mesi in vista di rinnovo per successivi tre anni una volta che fosse stata approvata la seconda fase del progetto.

Bissau! Avevo visto capitali africane malconce, villaggi di case in banco (terra impastata con paglia e spesso sterco di vacca), discariche urbane a montagne russe chiamate parchi giochi infantili da un ironico collega per sdrammatizzare, carreggiate e piste butterate, ma una capitale così triste e cadente no, non l'avevo ancora vista. Una tristezza di impronta tutta lusitana, sulla quale sembrava alitare l'eco dei fados, quelle melodie lamentose cariche di una saudade (nostalgia in portoghese) di non si sa cosa. Il fronte del porto, con facciate dilavate da anni di pioggia e fiorite di muffa che contemplavano cieche sfasciumi arrugginiti di scafi da tempo destinati alla marcescenza erano un pugno nello stomaco, una piaga per l'occhio. E per il resto l'oceano era invisibile, una città di mare senza mare, dove soltanto lontano, in periferia, si intravedeva  qualcosa di simile a una superficie acquea ingombra di mangrovie e di fango.

Rivedo la strada che dall"aeroporto arrivava dritta in centro, piena di buche, l'albergo dove trascorsi il primo mese del mio soggiorno, mi rivedo arrivare con  l'autista più scheletrico  e silenzioso che abbia mai avuto in una vecchia  Land Rover a due posti, scomodissima, nello spiazzo dell'Ospedale Raoul Follerau  (dove avevamo l'ufficio) per malati di TBC e di AIDS. Era presente anche l'ONG  Raoul Follerau che svolgeva un intervento clinico. Praticamente tutti i tubercolotici erano malati di AIDS conclamato. E condannati.
Chi ben comincia... mi fu piuttosto difficile mantenere alto il morale e imprimere un abbrivio ottimistico ai miei collaboratori, tutti uomini i tecnici e anche il partner  principale, il cosiddetto omologo, il trait-d'union con la Commissione del Ministero della Sanità per la lotta all'AIDS.
Avevamo una stamperia per produrre manifesti con serigrafia, computer, telefono e fax, ciclostile, carta di vario formato, non male. Il mio predecessore, più tecnologico di me, in pochi giorni,prima di rientrare in Italia, mi dette una grossolana infarinatura su tutto ciò che aveva fatto in tre anni mettendo a dura prova la mia capacità di assorbire rapidamente una montagna di informazioni dati nomi strutture burocratiche nazionali e internazionali compresi gli arcani rapporti con il nostro donatore, la Commissione Europea, incarnata localmente dalla Delegazione e soprattutto dal Delegato, rapporto da coltivare con la massima cura e scaltrezza. Ogni sera avevo mal di testa. Infine l'ex capo progetto parti' e mi trovai "sola al comando". Con l'aiuto, per fortuna, di una volenterosa ed efficiente segretaria, moglie del capo della Federazione sindacale dei lavoratori della Guinea, ufficialmente socialista e quindi con una unica Federazione, la cui conoscenza mi fu preziosa per i contatti con la classe operaia, Cara Manuela, dove sei adesso?

Il mattino alle 7 scendevo a far colazione e il mio sorriso di bom dia si spegneva entrando nella sala dove lo splendore del sole già caldo si affiocava alle luci smunte di pesanti lampadari accesi perché polverosi tendaggi di velluto cremisi  perversamente provvedevano ad occultare ogni raggio esterno.  Stessa luce smorta la sera sulla parca cena. Ma anche il sole esitava spesso a mostrarsi e la stagione delle piogge quell'anno fu particolarmente prodiga tra temporali acquazzoni e rovesci pervicaci che scavavano sempre più le buche dell'asse principale della città, il mio percorso mattina e sera. Ormai guidavo io e per molti giorni fui tormentata dalle richieste pecuniarie della polizia stradale che cercava pretesti assurdi per spillarmi quattrini, finché non sbottai indignata e da allora mi ignorarono.

Su tale sfondo, mentre mi arrabattavo per far fronte sia a incombenze quotidiane e incontri ufficiali che per capire quale strategia proporre per la fase due del progetto alla Commissione e alla ONG, digerendo contemporaneamente faldoni su faldoni di documenti e studi, cominciarono a serpeggiare  quelli che furono inizialmente liquidati come "boatos", voci ingannevoli, rumours in inglese, di un aumento di casi di colera, colera che è endemico in quasi tutti i paesi africani ma che di tanto in tanto,  principalmente nella stagione delle piogge, diviene epidemico. Intanto gli studi epidemiologici che divoravo a decine concordavano nel valutare minacciosa l'estensione dell'infezione da HIV2 (spiegherò brevemente la differenza tra HIV1 e 2  nella seconda parte del post) in Guinea Bissau, al 10% nella popolazione generale e molto più alta tra i nostri (del progetto) gruppi target: prostitute, militari e giovani celibi sotto i 25 anni. E i boatos si tradussero presto in numeri sulle pagine dei giornali e nelle riunioni al Ministero della Sanità.

* Data la difficoltà di inserire molte foto nel testo e predisporre una impaginazione decente usando la ridotta superficie di un cellulare, ho deciso di rimandare il resoconto del mio viaggio in Ecuador, e rivangare ricordi di altri momenti difficili, ben più difficili dell'attuale personalmente, della mia lunga carriera di cooperante internazionale. E qui rievoco forse "il più peggiore".