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sabato 4 luglio 2020

VERDI FORESTE D'ANGOLA (2)


VERDI FORESTE D’ANGOLA (2)


In un’Angola sventrata da 30 anni di guerre

Mendicanti a Huambo, Angola centrale, gennaio 1996
 Nel gennaio1996, in preparazione al nostro compito di rieducazione alla vita civile di persone che avevano solo conosciuto la guerra, dietro richiesta dell’UCAH,[1] Save the Children UK aveva organizzato un seminario di formazione di qualche giorno. Non ricordo se ciò avvenne a Luanda oppure in un campo di accantonamento a Negage (provincia di Uige), a nord, vicino alla frontiera con l’allora Zaire, oggi RDC. L’animatrice era una persona molto in gamba, e degli aspetti che illustrò, degli esercizi esperienziali che formulò, ricordo nettamente un “esercizio” e un episodio. 

Ci dette un foglio di carta formato A4 bianco e ci disse di strapparlo in pezzetti minuti ammucchiando i frammenti sul tavolino davanti a noi. Poi ci ingiunse: ora cercate di ricomporre il foglio iniziale. Ovviamente rimanemmo interdetti e la guardammo sorpresi (mi pare che fossimo quasi tutte donne, ma la eventuale sparuta rappresentanza maschile impone con prepotenza la “i”). L’animatrice spiegò: è chiaramente impossibile. Ebbene, questa frammentazione è ciò che avviene nell’anima, nella personalità di chi è travolto dalla guerra, tanto più se si tratta di bambini arruolati di forza come soldati. E voi avrete a che fare con molti ex bambini soldato, rapiti dalle loro case e cresciuti in boscaglia tra battaglie, pericoli, stenti, esperienze traumatiche.
Huambo,verso il mercato


Persone spezzate, bambini metamorfosati in falsi adulti con la violenza. Sapevo che in Mozambico, durante il peggior periodo della guerra civile tra il 1982 e il 1992, molti minori strappati alle famiglie per combattere coi i loro rapitori erano stati costretti a commettere, come atto iniziatico della loro nuova vita, atrocità inaudite, come uccidere di proprio pugno i genitori e i congiunti, al fine di scavare dietro di loro un fossato incolmabile e separarli per sempre dal consesso civile d’origine, addestrandoli alla spietatezza per sopravvivere. Probabilmente ciò era accaduto anche in Angola.[2]Quel foglio sminuzzato mi rimase stampato in mente.

L’episodio, egualmente impressionante, era stato vissuto con raccapriccio dalla relatrice che si trovava in non so più quale regione angolana mesi prima. In seguito a terribili alluvioni e straripamento dei fiumi, villaggi interi erano stati spazzati via dalle piene, e con i villaggi i suoi abitanti. Persone che disperatamente cercavano di salvarsi afferrandosi ai tronchi, nuotando verso riva senza successo sfilavano tra i flutti davanti agli occhi di poveri contadini come loro. Spettatori questi che, invece di cercare di aiutare chi stava annegando con pertiche, barche, gettando corde, o fissare con orrore quello spettacolo, restavano in cima all’argine sghignazzando e additando le vittime come se fossero al cinema (“guarda che buffo quello lì”) e facevano “ciao ciao con la manina”[3], dileggiandoli e sbeffeggiandoli. Anche quella rievocazione mi turbò moltissimo, e la nostra trainer raggiunse lo scopo di farci palpare con mano la disumanizzazione che la guerra può indurre in persone altrimenti “normali”, poveracci eguali a coloro che venivano trascinati dalla corrente verso una morte sicura. 
piena in Africa, foto CUAMM (medici per l'Africa)

Fu nella decade del 1990, dopo la guerra nella ex-Jugoslavia e con il moltiplicarsi di guerre locali sempre più feroci [4]che si diffusero gli studi di psichiatri ed etnopsichiatri sulle sindromi di PTSD’s[5]. Finora la mia esperienza professionale non comprendeva quest’ambito: fu dunque una conturbante iniziazione personale in terra incognita.
Folla vicina al mercato di Huambo


Questo era il contesto, queste, e peggiori, le esperienze di chi avrei incontrato nei campi di accantonamento. Tenendolo presente mi recai con trepidazione al primo incontro con i miei futuri interlocutori, confidando nel fatto che la premessa di ogni comunicazione interculturale è la tensione sincera verso l’altro, l’interesse a capire e la predisposizione all’empatia, tutti fattori che travalicano barriere linguistiche e culturali e si materializzano più negli sguardi e nei gesti che nelle parole pronunciate[6]. La mia regola fu di non cercare di scavare nel passato individuale dei miei formatori, di ascoltare soltanto se qualche cenno o racconto sorgesse spontaneo. I primi due guerriglieri che incontrai in quel mattino di gennaio del 1996, Adam e David, divennero il mio punto di riferimento per mesi, di loro mi fidavo direi quasi ciecamente, e infine me ne separai come da cari amici con grande rimpianto. Della loro esperienza di guerra non chiesi né seppi mai nulla, non era necessario. Mi è sempre rimasto in testa un proverbio in lingua bamanankan (dei Bambara maliani): danaya ka gelen, la fiducia è difficile, bisogna guadagnarsela.
Uno dei formatori con famiglia


I soldati presenti nell’accampamento guerrigliero erano 2148, tra i quali 237 minori; i rilevamenti statistici effettuati dall’UCAH all’epoca della registrazione e della consegna delle armi[7]mi permisero di conoscere la loro età, provenienza, stato di salute, aspirazioni “professionali” e soprattutto livelli di scolarità. La metà circa era o analfabeta integrale o aveva frequentato al massimo la terza elementare e quindi si poteva considerare analfabeta, mentre una “élite” che rappresentava meno del 3% aveva frequentato tra la 7° e la 9° classe. Tra loro scelsi i formatori dei formatori, coloro che poi avrebbero dovuto formare a loro volta i maestri a diversi livelli del resto della truppa. L’UCAH ci fornì i materiali di base necessari e parecchia documentazione storica.


Jango per la formazione




La formazione avveniva all’interno dei “jangos”, delle capanne rettangolari molto ampie e costruite solidamente con pali e paglia intrecciata. Gli spessi tetti spioventi non lasciavano filtrare né calore né pioggia, una tecnica ammirevole e ben lontana dalla fragilità delle capanne del Mali. Ne ho viste di costruite altrettanto solidamente nel nord della Tanzania: i tetti così intrecciati con le foglie di una palma speciale sopportano varie stagioni di piogge, piogge che sono in Angola diluvi semi-apocalittici. Usai moltissimo le immagini, disegni con pennarello su fogli A4 che facevo io, non avendo trovato artisti tra i formatori, e tutto sommato vidi che le mie silhouettes essenziali erano comprese e utili a concretizzare i concetti. Particolarmente difficile mi fu far comprendere un’idea fondamentale quale lo stato di diritto e la tripartizione dei poteri statuali. Abituati ai “sobas”, capi tradizionali con potere assoluto sui loro “sudditi”, i miei formatori non riuscivano ad afferrare il concetto. Mi aiutò un brano immaginifico di Rousseau: il legislativo, evocato come la volontà senza il potere, divenne un amputato con le grucce, e l’esecutivo, il potere senza la volontà, fu personificato da un perdigiorno sdraiato sotto un albero a godere il fresco. La giustizia, beh, la bilancia va sempre bene. E la necessità della comunicazione con il nemico divennero labbra (le parole) che facevano da ponte. Tutti punti sensibili: la guerra aveva distrutto centinaia di ponti, e c’erano centinaia di migliaia di amputati in giro per Luanda (e altrove!). Handicap International non faceva che importare protesi di arti: si diceva che esistessero milioni di mine seppellite nei campi per tutta l’Angola (1.200.000 km2), dopo tre guerre successive[8]. Nel 1996 le operazioni di sminamento erano all’inizio. 
I figli dei guerriglieri a scuola


Luanda era stata relativamente risparmiata dai bombardamenti, ma moltissime città e centri minori erano un cumulo di macerie. Di questi luoghi vidi solo Huambo, al centro del paese. I rifugiati si contavano a milioni. E la periferia di Luanda era disseminata di bidonvilles brulicanti, tra le più miserande che abbia mai visto, Somalia esclusa.


A proposito di mine: la nostra pista attraversava per molti km una pianura, quella infestata a tratti da mosche tse-tse, attorniata da campi minati. Per molte settimane passando nei due sensi avevamo visto al lavoro gli sminatori con lunghe aste che terminavano con un anello, credo fossero sudafricani. Le zone contaminate erano segnalate con cospicui cartelli piantati a terra con tanto di teschio e tibie incrociate. Un giorno mi parve che tale segnaletica fosse scomparsa; ne dedussi che la zona fosse ormai sicura per cui scesi tranquilla dalla macchina addentrandomi nel campo per un elementare bisogno fisiologico. Riavviandomi verso l’auto udii grida scomposte: dove vai? Fermati! E’ un campo minato! Oddio, lo sminamento non era terminato. Misi con cura i piedi sulle mie orme precedenti e ne uscii illesa, facendomi redarguire duramente dagli sminatori e facendo la figura della perfetta imbecille.  Una vispa Teresa fuori luogo.
Sessione di formazione


Amai moltissimo il mio lavoro e non ebbi mai problemi, anzi riuscii a fare da paciere durante una semi-rivolta che scoppiò tra i guerriglieri a proposito, mai l’avrei immaginato, delle porzioni di sale. Una mattina fui sollecitata urgentemente a recarmi all’accampamento guerrigliero per parlamentare con alcuni dei loro rappresentanti: c’era una grande agitazione e si parlava di prodromi di ribellione. Che era successo? Semplicemente che le porzioni di sale a persona, non ricordo quanti grammi a testa giornalieri, erano giudicate insufficienti e motivo di rivendicazione violenta, come se si trattasse di un insulto alle esigenze elementari dei guerriglieri e delle loro famiglie. Ma perché? Il dialogo chiarì l’importanza che aveva il sale in quel contesto: per anni nelle zone di guerra e nelle aree occupate dall’UNITA il cibo aveva potuto essere cacciato, coltivato o raccolto, ma il sale no, il sale arrivava solo nelle città tenute dal MPLA governativo, così come era mancato il sapone. Senza soda era impossibile fabbricarlo artigianalmente. Questi due prodotti, ma soprattutto il sale, avevano assunto un valore emblematico, erano il simbolo di un privilegio negato per anni, e il lesinare il sale (questa era la percezione) equivaleva a disprezzo. In seguito dubitai che lo barattassero nel villaggio, ma poco importava: riuscii a calmare i bollenti spiriti e acquistai ulteriore stima nel campo e presso il comandante.


Nel nostro "quartiere"
D’altronde quando andavamo a Luanda per prendere fiato e rifornirci di cibo, soprattutto scatolette e biscotti, per qualche incontro all’UCAH o con l’Ambasciata italiana, il nostro finanziatore, compravamo sacchi di sale e barre di sapone da barattare con caschi di banane o altra frutta o verdura (rara), e l’amministratore fece miracoli per far quadrare i conti, dato che questi acquisti erano extra budget ufficiale, pur permettendoci di mangiare meglio. Il denaro in boscaglia non valeva nulla, c’era solo il baratto. E in più l’inflazione era talmente galoppante che quando a Luanda facevamo la spesa i soldi (kwanza) li mettevamo in sacchi di plastica, tenuti negligentemente appesi al braccio: tutti facevano così e nessuno veniva derubato, erano poco più che cartaccia. Per i dollari invece bisognava vigilare, frequenti le esazioni dei poliziotti.
...e potere esecutivo
I miei disegni: potere legislativo

Un’esperienza unica fu l’attraversamento di un fiume in piena con una barchetta senza motore e una sola pagaia. Fu dopo la sessione di formazione a Negage, a nord, dove eravamo arrivati con un aereo militare che non era più disponibile per il ritorno, che così occupò un’intera lunghissima giornata. Ricordo una partenza travagliata che doveva iniziare all’alba e si trascinò con un ritardo interminabile. L’attraversamento della città di Negage con il gruppo dell’UNITA fu pieno di tensione perché quell’area era maggioritariamente pro-governativa e si temevano provocazioni. Tutto andò liscio, eravamo scortati dal battaglione di stanza locale, uruguayano. Circolavano pettegolezzi sul fatto che costassero un occhio all’UNAVEM perché esigevano l’invio aereo di forme di formaggio patrio. Tutta la colonna avanzava lentissima, per fortuna mi ero portata un po’ di frutta perché non era prevista una pausa per rifocillarci. Nel primo pomeriggio ci fecero scendere dal camion e il battaglione tornò indietro, cosicché mi ritrovai a camminare con lo zaino in spalla al margine di una foresta con il manipolo di guerriglieri, carico di tutto quello che avevano comperato a Negage, prossima alla frontiera con l’allora Zaire e quindi ben provvista di mercanzie introvabili a Quibaxe. Ero piuttosto perplessa: come e quando saremmo arrivati a Piri?


Parchi e riserve naturali - Ambasciata della Repubblica dell'Angola
Foto Ambasciata Angolana
Me la vidi brutta quando arrivammo sulla riva di un fiume: Piri era dall’altra parte. Come arrivarci? C’era una sola barca non grande, e noi eravamo almeno 60 o 70 , più le molte merci, tra le quali figurava un voluminoso complesso stereofonico per il comandante.  Il fiume era largo un centinaio di metri, e molto tumultuoso.  Ma non c’era alternativa: il privilegio di sperimentare l’attraversamento toccò alla sottoscritta con i fedeli Adam e David e il barcaiolo. Dovemmo caricare anche l’arnese musicale per il comandante che abbassò di parecchio la linea di galleggiamento della barchetta. Ripensai al motto preferito del collega tedesco Frank: “Somos nas maõs de Deus[1]”. Come arrivare dall’altra parte senza essere trascinati via dalla corrente? Fu la rivelazione di una tecnica guerrigliera: 

Adam e David afferrarono rami e liane che sporgevano dalla riva in abbondanza facendoci risalire controcorrente di parecchie lunghezze e io li aiutai energicamente; a un certo punto i miei compagni giudicarono che ci si poteva fidare, lasciammo la presa e con le braccia e la pagaia remammo freneticamente verso l’altra riva in diagonale, calcolando di giungere al piccolo approdo, l’unico visibile, di fronte. Incredibile ma vero, ci arrivammo. Fui la prima a scendere e per poco non baciai la terra. Si scaricò la mercanzia e il barcaiolo tornò dall’altra parte con la stessa tecnica, e così ripetutamente, per decine di volte, finché non fummo tutti dalla parte giusta. Da lì ci fu ancora una bella camminata fino all’accampamento dove giungemmo che faceva buio. Il dahl [2]del battaglione indiano mi parve ambrosia divina. A distanza di quasi venticinque anni ricordo ancora come acciuffammo alla rinfusa quelle piante salvifiche, e come remammo di sbieco con tutta l’energia possibile. Quando hai vissuto cose del genere con qualcuno, non puoi non conservarne un ricordo indelebile. In giugno terminai il mio contratto e mi separai da Adam e David come da due amici fraterni, regalando loro quel che poteva essere utile: stivali di gomma, impermeabile, ombrello e la mia cartella di lavoro. 


La guerra riprese l’anno seguente e continuò fino al febbraio del 2002, quando Jonas Savimbi morì in battaglia e subito dopo furono firmati nuovi accordi di pace, questa volta definitivi. Mi chiedo spesso che ne sia stato dei miei due amici; spero che siano stati tra coloro che non ripresero le armi e che abbiano potuto finalmente vivere tranquilli. Ever since, come nelle favole
.
Cartina dell'Angola, dal web




[1] In portoghese: siamo nelle mani del Signore.
[2] Minestra di lenticchie aromatica indiana.





























[1] Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari. Ora si chiama OCHA.

[2] E’ ciò che è accaduto in molte guerre civili in Africa (forse non solo in Africa). C’è un bellissimo libro di Ahmadou Kourouma del 2000, Allah n’est pas obligé, che racconta in prima persona le esperienze di un bambino soldato. https://fr.wikipedia.org/wiki/Allah_n%27est_pas_oblig%C3%A9.

[3] Parole che ricordo testualmente.

[4][4] C’erano già le esperienze degli psichiatri alle prese con le crisi di violenza diretta verso altri o verso di sé dei reduci del Vietnam, o con le terapie delle vittime delle torture degli aguzzini sudamericani.

[5] Post-traumatic Stress Disorders. In italiano vedi il volume Il corpo accusa il colpo di Bessel van der Kolk, Raffaello Cortina editore, 2015, e vari articoli nei Fogli di Oriss, ad esempio di Roberto Beneduce e Simona Taliani: “Politiche della memoria e retorica del trauma”, 1999, https://iris.unito.it/handle/2318/127196#.XvyzD-dS_IU.

[6] Chiaramente gli anni trascorsi tra Mozambico, Mali, Benin e Guinea Bissau me lo avevano insegnato.

[7] Si diceva che l’UNITA avesse consegnato in realtà i ferrivecchi, e che la maggioranza delle armi più temibili fosse imboscata chissà dove. Non a caso, alla ripresa della guerra, saltarono fuori. Tali operazioni delle N.U. venivano chiamate DDR in inglese: disarmament, demobilization, reintegration.

[8] Prima la guerra contro il potere coloniale portoghese sin dagli anni 1960, poi la seconda guerra dal 1975 agli accordi di Bicesse del 1991, poi la terza da Bicesse a Lusaka, 1994. E purtroppo ce ne fu un’altra, dal 1997 al 2002.

[9] In portoghese: siamo nelle mani del Signore.


[10] Minestra di lenticchie aromatica indiana.

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