VERDI FORESTE
D’ANGOLA (2)
In un’Angola sventrata da 30 anni di
guerre
Mendicanti a Huambo, Angola centrale, gennaio 1996 |
Nel gennaio1996, in preparazione al nostro compito di rieducazione alla vita
civile di persone che avevano solo conosciuto la guerra, dietro richiesta dell’UCAH,[1]
Save the Children UK aveva
organizzato un seminario di formazione di qualche giorno. Non ricordo se ciò
avvenne a Luanda oppure in un campo di accantonamento a Negage (provincia di
Uige), a nord, vicino alla frontiera con l’allora Zaire, oggi RDC. L’animatrice
era una persona molto in gamba, e degli aspetti che illustrò, degli esercizi
esperienziali che formulò, ricordo nettamente un “esercizio” e un episodio.
Huambo,verso il mercato |
Persone spezzate, bambini metamorfosati in falsi adulti con
la violenza. Sapevo che in Mozambico, durante il peggior periodo della guerra
civile tra il 1982 e il 1992, molti minori strappati alle famiglie per
combattere coi i loro rapitori erano stati costretti a commettere, come atto
iniziatico della loro nuova vita, atrocità inaudite, come uccidere di proprio
pugno i genitori e i congiunti, al fine di scavare dietro di loro un fossato
incolmabile e separarli per sempre dal consesso civile d’origine, addestrandoli
alla spietatezza per sopravvivere. Probabilmente ciò era accaduto anche in
Angola.[2]Quel
foglio sminuzzato mi rimase stampato in mente.
L’episodio, egualmente impressionante, era stato vissuto con
raccapriccio dalla relatrice che si trovava in non so più quale regione angolana
mesi prima. In seguito a terribili alluvioni e straripamento dei fiumi, villaggi
interi erano stati spazzati via dalle piene, e con i villaggi i suoi abitanti.
Persone che disperatamente cercavano di salvarsi afferrandosi ai tronchi, nuotando
verso riva senza successo sfilavano tra i flutti davanti agli occhi di poveri
contadini come loro. Spettatori questi che, invece di cercare di aiutare chi
stava annegando con pertiche, barche, gettando corde, o fissare con orrore
quello spettacolo, restavano in cima all’argine sghignazzando e additando le
vittime come se fossero al cinema (“guarda che buffo quello lì”) e facevano
“ciao ciao con la manina”[3],
dileggiandoli e sbeffeggiandoli. Anche quella rievocazione mi turbò moltissimo,
e la nostra trainer raggiunse lo scopo di farci palpare con mano la disumanizzazione
che la guerra può indurre in persone altrimenti “normali”, poveracci eguali a
coloro che venivano trascinati dalla corrente verso una morte sicura.
piena in Africa, foto CUAMM (medici per l'Africa) |
Fu nella
decade del 1990, dopo la guerra nella ex-Jugoslavia e con il moltiplicarsi di guerre
locali sempre più feroci [4]che
si diffusero gli studi di psichiatri ed etnopsichiatri sulle sindromi di PTSD’s[5].
Finora la mia esperienza professionale non comprendeva quest’ambito: fu dunque
una conturbante iniziazione personale in terra incognita.
Folla vicina al mercato di Huambo |
Questo era il contesto, queste, e peggiori, le esperienze di
chi avrei incontrato nei campi di accantonamento. Tenendolo presente mi recai con
trepidazione al primo incontro con i miei futuri interlocutori, confidando nel
fatto che la premessa di ogni comunicazione interculturale è la tensione sincera
verso l’altro, l’interesse a capire e la predisposizione all’empatia, tutti
fattori che travalicano barriere linguistiche e culturali e si materializzano
più negli sguardi e nei gesti che nelle parole pronunciate[6].
La mia regola fu di non cercare di scavare nel passato individuale dei miei
formatori, di ascoltare soltanto se qualche cenno o racconto sorgesse
spontaneo. I primi due guerriglieri che incontrai in quel mattino di gennaio
del 1996, Adam e David, divennero il mio punto di riferimento per mesi, di loro
mi fidavo direi quasi ciecamente, e infine me ne separai come da cari amici con
grande rimpianto. Della loro esperienza di guerra non chiesi né seppi mai nulla,
non era necessario. Mi è sempre rimasto in testa un proverbio in lingua
bamanankan (dei Bambara maliani): danaya
ka gelen, la fiducia è difficile, bisogna guadagnarsela.
Uno dei formatori con famiglia |
I soldati presenti nell’accampamento guerrigliero erano
2148, tra i quali 237 minori; i rilevamenti statistici effettuati dall’UCAH all’epoca
della registrazione e della consegna delle armi[7]mi
permisero di conoscere la loro età, provenienza, stato di salute, aspirazioni
“professionali” e soprattutto livelli di scolarità. La metà circa era o
analfabeta integrale o aveva frequentato al massimo la terza elementare e
quindi si poteva considerare analfabeta, mentre una “élite” che rappresentava
meno del 3% aveva frequentato tra la 7° e la 9° classe. Tra loro scelsi i
formatori dei formatori, coloro che poi avrebbero dovuto formare a loro volta i
maestri a diversi livelli del resto della truppa. L’UCAH ci fornì i materiali
di base necessari e parecchia documentazione storica.
Jango per la formazione |
La formazione avveniva all’interno dei “jangos”, delle capanne rettangolari molto ampie e costruite solidamente con pali e paglia
intrecciata. Gli spessi tetti spioventi non lasciavano filtrare né calore né
pioggia, una tecnica ammirevole e ben lontana dalla fragilità delle capanne del
Mali. Ne ho viste di costruite altrettanto solidamente nel nord della Tanzania:
i tetti così intrecciati con le foglie di una palma speciale sopportano varie
stagioni di piogge, piogge che sono in Angola diluvi semi-apocalittici. Usai
moltissimo le immagini, disegni con pennarello su fogli A4 che facevo io, non
avendo trovato artisti tra i formatori, e tutto sommato vidi che le mie
silhouettes essenziali erano comprese e utili a concretizzare i concetti.
Particolarmente difficile mi fu far comprendere un’idea fondamentale quale lo
stato di diritto e la tripartizione dei poteri statuali. Abituati ai “sobas”,
capi tradizionali con potere assoluto sui loro “sudditi”, i miei formatori non
riuscivano ad afferrare il concetto. Mi aiutò un brano immaginifico di
Rousseau: il legislativo, evocato come la volontà senza il potere, divenne un
amputato con le grucce, e l’esecutivo, il potere senza la volontà, fu personificato
da un perdigiorno sdraiato sotto un albero a godere il fresco. La giustizia,
beh, la bilancia va sempre bene. E la necessità della comunicazione con il nemico
divennero labbra (le parole) che facevano da ponte. Tutti punti sensibili: la
guerra aveva distrutto centinaia di ponti, e c’erano centinaia di migliaia di
amputati in giro per Luanda (e altrove!). Handicap
International non faceva che importare protesi di arti: si diceva che
esistessero milioni di mine seppellite nei campi per tutta l’Angola (1.200.000
km2), dopo tre guerre successive[8].
Nel 1996 le operazioni di sminamento erano all’inizio.
I figli dei guerriglieri a scuola |
Luanda era stata relativamente risparmiata dai bombardamenti,
ma moltissime città e centri minori erano un cumulo di macerie. Di questi
luoghi vidi solo Huambo, al centro del paese. I rifugiati si contavano a
milioni. E la periferia di Luanda era disseminata di bidonvilles brulicanti, tra
le più miserande che abbia mai visto, Somalia esclusa.
A proposito di mine: la nostra pista attraversava per molti
km una pianura, quella infestata a tratti da mosche tse-tse, attorniata da
campi minati. Per molte settimane passando nei due sensi avevamo visto al
lavoro gli sminatori con lunghe aste che terminavano con un anello, credo
fossero sudafricani. Le zone contaminate erano segnalate con cospicui cartelli piantati
a terra con tanto di teschio e tibie incrociate. Un giorno mi parve che tale
segnaletica fosse scomparsa; ne dedussi che la zona fosse ormai sicura per cui scesi
tranquilla dalla macchina addentrandomi nel campo per un elementare bisogno
fisiologico. Riavviandomi verso l’auto udii grida scomposte: dove vai? Fermati!
E’ un campo minato! Oddio, lo sminamento non era terminato. Misi con cura i
piedi sulle mie orme precedenti e ne uscii illesa, facendomi redarguire
duramente dagli sminatori e facendo la figura della perfetta imbecille. Una vispa Teresa fuori luogo.
Sessione di formazione |
Amai moltissimo il mio lavoro e non ebbi mai problemi, anzi
riuscii a fare da paciere durante una semi-rivolta che scoppiò tra i
guerriglieri a proposito, mai l’avrei immaginato, delle porzioni di sale. Una
mattina fui sollecitata urgentemente a recarmi all’accampamento guerrigliero
per parlamentare con alcuni dei loro rappresentanti: c’era una grande
agitazione e si parlava di prodromi di ribellione. Che era successo?
Semplicemente che le porzioni di sale a persona, non ricordo quanti grammi a
testa giornalieri, erano giudicate insufficienti e motivo di rivendicazione
violenta, come se si trattasse di un insulto alle esigenze elementari dei
guerriglieri e delle loro famiglie. Ma perché? Il dialogo chiarì l’importanza
che aveva il sale in quel contesto: per anni nelle zone di guerra e nelle aree
occupate dall’UNITA il cibo aveva potuto essere cacciato, coltivato o raccolto,
ma il sale no, il sale arrivava solo nelle città tenute dal MPLA governativo,
così come era mancato il sapone. Senza soda era impossibile fabbricarlo artigianalmente.
Questi due prodotti, ma soprattutto il sale, avevano assunto un valore
emblematico, erano il simbolo di un privilegio negato per anni, e il lesinare
il sale (questa era la percezione) equivaleva a disprezzo. In seguito dubitai
che lo barattassero nel villaggio, ma poco importava: riuscii a calmare i
bollenti spiriti e acquistai ulteriore stima nel campo e presso il comandante.
Nel nostro "quartiere" |
D’altronde quando andavamo a Luanda per prendere fiato e
rifornirci di cibo, soprattutto scatolette e biscotti, per qualche incontro all’UCAH
o con l’Ambasciata italiana, il nostro finanziatore, compravamo sacchi di sale
e barre di sapone da barattare con caschi di banane o altra frutta o verdura
(rara), e l’amministratore fece miracoli per far quadrare i conti, dato che
questi acquisti erano extra budget ufficiale, pur permettendoci di mangiare meglio.
Il denaro in boscaglia non valeva nulla, c’era solo il baratto. E in più
l’inflazione era talmente galoppante che quando a Luanda facevamo la spesa i
soldi (kwanza) li mettevamo in sacchi di plastica, tenuti negligentemente
appesi al braccio: tutti facevano così e nessuno veniva derubato, erano poco
più che cartaccia. Per i dollari invece bisognava vigilare, frequenti le
esazioni dei poliziotti.
...e potere esecutivo |
I miei disegni: potere legislativo |
Un’esperienza unica fu l’attraversamento di un fiume in
piena con una barchetta senza motore e una sola pagaia. Fu dopo la sessione di
formazione a Negage, a nord, dove eravamo arrivati con un aereo militare che non
era più disponibile per il ritorno, che così occupò un’intera lunghissima
giornata. Ricordo una partenza travagliata che doveva iniziare all’alba e si
trascinò con un ritardo interminabile. L’attraversamento della città di Negage
con il gruppo dell’UNITA fu pieno di tensione perché quell’area era maggioritariamente
pro-governativa e si temevano provocazioni. Tutto andò liscio, eravamo scortati
dal battaglione di stanza locale, uruguayano. Circolavano pettegolezzi sul
fatto che costassero un occhio all’UNAVEM perché esigevano l’invio aereo di
forme di formaggio patrio. Tutta la colonna avanzava lentissima, per fortuna mi
ero portata un po’ di frutta perché non era prevista una pausa per
rifocillarci. Nel primo pomeriggio ci fecero scendere dal camion e il
battaglione tornò indietro, cosicché mi ritrovai a camminare con lo zaino in
spalla al margine di una foresta con il manipolo di guerriglieri, carico di
tutto quello che avevano comperato a Negage, prossima alla frontiera con l’allora
Zaire e quindi ben provvista di mercanzie introvabili a Quibaxe. Ero piuttosto
perplessa: come e quando saremmo arrivati a Piri?
Foto Ambasciata Angolana |
Me la vidi brutta quando arrivammo sulla riva di un fiume: Piri era
dall’altra parte. Come arrivarci? C’era una sola barca non grande, e noi
eravamo almeno 60 o 70 , più le molte merci, tra le quali figurava un voluminoso
complesso stereofonico per il comandante.
Il fiume era largo un centinaio di metri, e molto tumultuoso. Ma non c’era alternativa: il privilegio di
sperimentare l’attraversamento toccò alla sottoscritta con i fedeli Adam e
David e il barcaiolo. Dovemmo caricare anche l’arnese musicale per il
comandante che abbassò di parecchio la linea di galleggiamento della barchetta.
Ripensai al motto preferito del collega tedesco Frank: “Somos nas maõs
de Deus[1]”.
Come arrivare dall’altra parte senza essere trascinati via dalla corrente? Fu
la rivelazione di una tecnica guerrigliera:
Adam e David afferrarono rami e
liane che sporgevano dalla riva in abbondanza facendoci risalire controcorrente
di parecchie lunghezze e io li aiutai energicamente; a un certo punto i miei
compagni giudicarono che ci si poteva fidare, lasciammo la presa e con le
braccia e la pagaia remammo freneticamente verso l’altra riva in diagonale,
calcolando di giungere al piccolo approdo, l’unico visibile, di fronte.
Incredibile ma vero, ci arrivammo. Fui la prima a scendere e per poco non
baciai la terra. Si scaricò la mercanzia e il barcaiolo tornò dall’altra parte
con la stessa tecnica, e così ripetutamente, per decine di volte, finché non
fummo tutti dalla parte giusta. Da lì ci fu ancora una bella camminata fino
all’accampamento dove giungemmo che faceva buio. Il dahl [2]del
battaglione indiano mi parve ambrosia divina. A distanza di quasi venticinque
anni ricordo ancora come acciuffammo alla rinfusa quelle piante salvifiche, e come
remammo di sbieco con tutta l’energia possibile. Quando hai vissuto cose del
genere con qualcuno, non puoi non conservarne un ricordo indelebile. In giugno
terminai il mio contratto e mi separai da Adam e David come da due amici
fraterni, regalando loro quel che poteva essere utile: stivali di gomma,
impermeabile, ombrello e la mia cartella di lavoro.
La guerra riprese l’anno seguente e continuò fino al
febbraio del 2002, quando Jonas Savimbi morì in battaglia e subito dopo furono
firmati nuovi accordi di pace, questa volta definitivi. Mi chiedo spesso che ne
sia stato dei miei due amici; spero che siano stati tra coloro che non
ripresero le armi e che abbiano potuto finalmente vivere tranquilli. Ever
since, come nelle favole
.
Cartina dell'Angola, dal web |
[1] Ufficio
delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari. Ora si chiama OCHA.
[2] E’ ciò
che è accaduto in molte guerre civili in Africa (forse non solo in Africa). C’è
un bellissimo libro di Ahmadou Kourouma del 2000, Allah n’est pas obligé, che racconta in prima persona le esperienze
di un bambino soldato. https://fr.wikipedia.org/wiki/Allah_n%27est_pas_oblig%C3%A9.
[3] Parole
che ricordo testualmente.
[4][4]
C’erano già le esperienze degli psichiatri alle prese con le crisi di violenza diretta
verso altri o verso di sé dei reduci del Vietnam, o con le terapie delle
vittime delle torture degli aguzzini sudamericani.
[5]
Post-traumatic Stress Disorders. In italiano vedi il volume Il corpo accusa il colpo di Bessel van
der Kolk, Raffaello Cortina editore, 2015, e vari articoli nei Fogli di Oriss, ad esempio di Roberto
Beneduce e Simona Taliani: “Politiche della memoria e retorica del trauma”,
1999, https://iris.unito.it/handle/2318/127196#.XvyzD-dS_IU.
[6]
Chiaramente gli anni trascorsi tra Mozambico, Mali, Benin e Guinea Bissau me lo
avevano insegnato.
[7] Si
diceva che l’UNITA avesse consegnato in realtà i ferrivecchi, e che la maggioranza
delle armi più temibili fosse imboscata chissà dove. Non a caso, alla ripresa
della guerra, saltarono fuori. Tali operazioni delle N.U. venivano chiamate DDR
in inglese: disarmament, demobilization, reintegration.
[8] Prima la
guerra contro il potere coloniale portoghese sin dagli anni 1960, poi la
seconda guerra dal 1975 agli accordi di Bicesse del 1991, poi la terza da
Bicesse a Lusaka, 1994. E purtroppo ce ne fu un’altra, dal 1997 al 2002.
[9] In
portoghese: siamo nelle mani del Signore.
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