LETTERA DI INTELLETTUALI FRANCESI
SU RICHIESTA ITALIANA DI ESTRADIZIONE DI ESILIATI POLITICI N FRANCIA
Le Monde, martedì 20 aprile 2021
traduzione mia (testo francese in terza pagina) **
“Sono arrivati in Francia per la maggior parte all’inizio degli anni 1980, più di quarant’anni fa. Hanno partecipato all’enorme ondata di contestazione politica e sociale che ha profondamente segnato l’Italia durante il decennio successivo al 1968. Provenivano da gruppi (politici) diversi, avevano dietro di sé storie diverse ed erano tutti perseguiti dalla giustizia italiana per la loro attività politica. Sono stati protetti da quella che è stata definita “dottrina Mitterand”, poiché in certi casi le condizioni di funzionamento della giustizia italiana, dettate dalla necessità di dare una risposta urgente alle derive terroriste della contestazione sociale, lasciavano paradossalmente temere che tutte le garanzie di equità non fossero rispettate; poiché, più in generale, gli esiliati italiani avevano dichiarato pubblicamente che abbandonavano la loro militanza politica, che consideravano tramontata la loro attività politica, e che rinunciavano alla violenza.
La dottrina Mitterand non è un testo scritto, non ha valore che come decisione politica. Ma si fonda su un ragionamento che è stato riaffermato in seguito da molti governi, sia di destra che di sinistra, e che a noi pare valga la pena che sia senza dubbio ricordato. (Tale dottrina) non è mai consistita nel sottrarre dei colpevoli a una giusta pena, né nel rimettere in questione il diritto di uno Stato di far valere il proprio sistema giuridico. E’ piuttosto consistita nel proporre de facto un meccanismo di assunzione di una decisione politica di fronte alla lacerazione dolorosa e generalizzata della coesione di un paese, e dal momento che il contesto politico di tale lacerazione sembra dissolversi, di costruzione di una unità e di una ritrovata pacificazione.
Trasformare il dolore in conoscenza
Quindi (la dottrina) non pone una questione di casi individuali, bensì prende atto di una frattura che si è verificata, di cui ha constatato la violenza e che pare ormai superata: si pone il problema della ricomposizione di tale frattura. Non cancella le colpe e le responsabilità, non nega la storia passata. Permette semplicemente al paese di ricominciare a vivere, e indubbiamente agli storici di poter cominciare a fare il loro mestiere, cioè a trasformare il dolore lancinante in conoscenza.
Nel caso degli anni di piombo una simile eventualità si è prospettata ed è stata vicino a realizzarsi a opera dell’Italia stessa, alla fine degli anni 1990, poiché si doveva dichiarare chiuso un capitolo – ancora una volta non per dimenticare, ma per permettere al paese di liberarsi del (peso di) un periodo ormai passato e di consegnare agli storici il compito di farne la storia. Tale opportunità sotto forma di proposta di una amnistia politica non è stata colta; era collegata a un progetto di riforma costituzionale che non ha mai visto la luce.
La guerra è finita
Oggi i militanti italiani arrivati (in Francia) all’inizio degli anni 1980 hanno quaranta anni di più. Hanno ormai superato l’età del pensionamento. Sono diventati giornalisti, ristoratori, medici, grafici, documentaristi, psicologi. Hanno avuto figli e nipoti. Hanno continuato a ripetere che la guerra era finita, che da tempo si sentivano lontani da quello che erano stati, senza tuttavia mai rifiutare di ammettere le loro responsabilità. Avevano voluto il bene, la giustizia, l’eguaglianza, la condivisione, la solidarietà. Hanno avuto la tragedia. Ne ammettono la responsabilità ma hanno reso le armi da quarant’anni e tutta la loro vita successiva ne è testimone. E’ a questi uomini e a queste donne che a quarant’anni di distanza si chiedono i conti. Non da un punto di vista morale – ciascuno di loro ci ha già riflettuto a lungo – ma in nome di una giustizia che decreta che il perdono equivale all’oblio, che un’amnistia è sempre un tradimento, che la riconciliazione vale meno della riapertura delle piaghe. Riaprire le piaghe, fare in modo che la storia non passi.
Riaffermare la dottrina Mitterand oggi non significa in alcun modo dare all’Italia lezioni in materia di giustizia. Significa semplicemente ricordare che la politica si fa anche, e soprattutto, al presente, che è suo dovere costruire le condizioni di un futuro condiviso, e che la concezione della giustizia come puro strumento di vendetta anche dopo quaranta anni è contraria a ciò che noi continuiamo a ritenere un funzionamento illuminato della democrazia."
Primi Firmatari [1]
COMMENTO di La Croce e l’Orsa
Il passato che non passa, del quale è fatto cenno nel testo di questa lettera, è un male interamente italiano. Paradossalmente e specularmente in questo paese chiamato Italia si parla sempre più spesso di perdita di memoria storica, di “presentismo”, di un appiattimento della prospettiva politica e sociale nella decifrazione di una contemporaneità che ha lunghe radici.
La lettera menziona pudicamente, e non poteva fare altrimenti, la “lacerazione” dolorosa di leggi incostituzionali a base di tante condanne, ma glissa, e di nuovo non poteva non farlo, sulle responsabilità e le complicità mai ufficialmente acclarate in toto dello Stato italiano stesso nell’inaugurare la stagione delle stragi, proprio la stagione che portò tanti giovani compagni e compagne ( e non solo, si pensi a un intellettuale come Giangiacomo Feltrinelli) a pensare che non ci fosse altra soluzione che “take arms against a sea of troubles, and by opposing, end them”[2], mi scusi Shakespeare. Più che “anni di piombo” rosso quelli furono gli anni della gelignite nera (e tricolore) di Piazza Fontana del 1969, del tritolo nero (e tricolore) della Stazione di Bologna del 1980, dell’esplosivo nero (e tricolore) del treno Italicus, e di molti altri omicidi impuniti ad opera delle “forze dell’ordine”. Si pensi alla “licenza di uccidere” della legge Reale del 1975[3]. La prima di una serie.
Le stragi fasciste ebbero la piena complicità di quelli che pietosamente si indicarono come “pezzi di servizi di stato deviati”, per malintesa carità di patria. Tutti gli altri erano devoti servitori dello Stato. Se si fosse voluto perseguire i colpevoli, non c’era che da seguire gli indizi, quasi sempre evidenti e pesanti, ma si preferì dirottare, dirottare, dirottare. cancellare, cancellare, cancellare. E Licio Gelli poté spirare in pace nella sua villa Wanda.
Ancora oggi, a più di cinquanta anni dalla “madre di tutte le stragi”, la bomba di Piazza Fontana del 1969, che fu l’inizio di quella stagione di sangue italiana, non si conoscono tutti i veri mandanti, i meccanismi, tutte le facce che stanno dietro a quegli ordigni esplosivi (e a quelli inesplosi); ancora ci sono giovani italiani che credono che la bomba esplosa alla Banca dell’Agricoltura nel 1969 fu messa dalle Brigate Rosse.
Come chiudere ferite suppurate durante 50 anni?
Il grande gelo che attanagliò l’Italia a partire dal 1983 diceva che le speranze rivoluzionarie erano spente, che coloro che avevano creduto in una Italia più giusta impugnando armi di latta contro i bastioni imprendibili delle cittadelle capitaliste erano stati sconfitti prima ancora di prenderle in mano. Ma una pacificazione reale avrebbe richiesto che fosse lo Stato stesso a fare il bucato, a mettersi coraggiosamente sul banco degli accusati di fronte a coloro che avevano ingenuamente pensato di abbatterlo per costruirne un altro più equo. E sarebbe stato imprescindibile che tutti pagassero, e non si puntasse unicamente il dito contro gli attori della lotta armata rossa designata genericamente e proditoriamente con l’etichetta di terrorismo. Il Terrorista con la t maiuscola si ergeva a giudice imparziale. Si giocava a carte truccate.
Quindi alla fine degli anni 1990 amnistia non ci fu, pacificazione non ci poteva essere senza verità, e purtroppo anche all’inizio del 2000 si replicarono assurdi attentati come remake spettrale degli anni 1970/80. Giustizia non fu fatta allora e penso ormai che solo gli storici futuri e non la politica riusciranno a fare emergere tutti i retroscena del nostro lungo dopoguerra che arriva alle soglie del 2000.
Grottescamente ancora oggi va in scena la tragedia della Strage della stazione di Bologna del 1980 con il quarto processo che si è aperto il 16 aprile scorso. Ancora si scava nella melma del passato che non passa.
Per questo uno Stato rancoroso che sa di avere la coscienza molto nera in tutti i sensi si accanisce contro settantenni fuoriusciti che invece hanno riconosciuto le loro responsabilità in scelte sbagliate, anche e soprattutto politicamente e strategicamente sciagurate, che hanno distrutto non solo vite altrui ma le proprie. Si può sperare ancora nella tardiva resipiscenza di uno Stato che si è ostinato per decenni a coprire le proprie scelte sciagurate?
[1] Arié Alimi, avvocato, Etienne Balibar, filosofo, Luc Boltanski, sociologo, Jean-Louis Brochen, avvocato Fabien Calvo, professore di farmacologia, Jean-Louis Fournel, professore di scienze politiche, Claude Gautier, professore di filosofia politica, Pierre Girard, professore di italianistica, Nicolas Guillot, storico, Bertrand Guillarme, professore di filosofia politica e sociale, Bernard E. Harcourt, professore di diritto e di scienze politiche, Sandra Laugier, professoressa di filosofia, Dominique Maraninchi, professore di cancerologia, Fréderique Matonti, professore di scienze politiche, Jean Musitelli, ex consigliere diplomatico e portavoce di François MItterand, Judith Revel, professoressa di filosofia (Lista completa dei firmatari su Lemonde.fr)
** Testo francese ( mi dispiace ma i caratteri sono piccolissimi, è una foto)
[2] Da Hamlet: ”prendere le armi contro un mare di guai e sconfiggerli combattendoli”, traduzione rapida mia.
[3] L’articolo 3 estendeva il ricorso alla carcerazione preventiva, l’articolo 14 consentiva alle forze di polizia l’uso legittimo delle armi anche a livello preventivo. Per altre “leggi speciali” vedi Linkiesta del 18 ottobre 2011.
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