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martedì 19 settembre 2023

CHE INGIUSTIZIA SIA FATTA

 

FUNZIONARI ONU AL DI SOTTO DI OGNI SOSPETTO

 

Ritaglio da Le Monde, aprile 2014

Nel 2007 ho lavorato come capo progetto in Ciad, in una zona quasi desertica a 70 km dal confine con il Darfur sud-occidentale, all’altezza circa di Nyala, la capitale. Il progetto mirava a diminuire (eliminare??) la violenza contro le donne se non a colpirne i responsabili, aveva una sigla in inglese coniata di fresco dalle Nazioni Unite piuttosto barbara (SGBV, sexually and gender-based violence) ed era finanziato dall’UNICEF. Quindi mi sono trovata a lavorare con donne e famiglie sia sfollate da zone di guerra in Ciad sia con moltitudini di donne rifugiate dello sventurato Darfur, vasta regione del Sudan, che dal 2003 stava subendo ondate indescrivibili di razzie, bombardamenti, assalti armati, efferatezze e stupri da parte delle milizie scatenate dei “diavoli a cavallo”, così le vittime chiamavano i loro boia, le milizie dei Janjaweed, strumento del potere centrale del dittatore Omar Bashir. A capo dei diavoli a cavallo c’era (e c’è tuttora nella guerra attuale) un protetto di Bashir, Mohamet Hamdan Dagalo, detto Hemedti, accusato come il suo degno compare, il dittatore, di crimini contro l’umanità e genocidio dalla Corte Penale Internazionale. I racconti delle donne che erano riuscite a fuggire disperate dai villaggi incendiati saccheggiati bombardati, con il solo abito che avevano indosso, sopravvissute per giorni e giorni senza nulla camminando verso la frontiera con il Ciad, con il terrore addosso, mi avevano molto impressionato e commosso. Nel 2007 erano già quattro anni che i rifugiati vivevano in quell’enorme accampamento di tende, e temo che ci siano ancora. In Darfur la pace vera e propria non è mai tornata e dall’aprile scorso lo scontro di potere tra Burhan, erede di Omar Bashir, e il criminale Hemedti è esploso in una nuova guerra senza quartiere, dilagando da Khartum al paese e investendo con forza, ancora, il disgraziato Darfur.

Con questi ricordi in mente avevo ritagliato anni fa un articolo del quotidiano Le Monde del 19 aprile 2014 dal titolo: “Au Darfur, l’ONU cache des crimes de guerre”, sottotitolo: La fausse reussite d’une mission de paix.[1] L’autrice era Aicha Elbasri, una funzionaria ONU portavoce della Missione di pace denominata UNAMID (United Nations hybrid peace-keeping Mission), di stanza in Darfur tra il 2012 e il 2013.

E cito da Wikipedia: “…Elbasri fu testimone di quelli che possono essere definiti crimini di guerra e contro l’umanità in Darfur. Questo significa pulizia etnica di popolazioni non arabe[2] e attacchi sistematici contro la missione di pace da parte delle forze del governo sudanese, come anche attacchi contro civili delle fazioni ribelli. Per protesta la funzionaria si dimise e tentò di promuovere un’indagine attraverso i vari canali delle Nazioni Unite. Quando l’ONU si rifiutò di indagare, Elbasri decise di rendere pubblica la sua denuncia. Ella divulgò allora migliaia di telegrammi diplomatici segreti, rapporti di polizia, inchieste militari e email inviando il tutto alla rivista Foreign Policy. Fu la maggiore fuga di documenti riservati di una Missione ONU ancora attiva nella storia dell’organizzazione.[3] Così si esprime la funzionaria UNAMID su Le Monde, che riporta testualmente le sue parole: ... “Malgrado la presenza di una delle più importanti operazioni di peace-keeping al mondo[4], il Darfur è una zona mortifera dove regna la legge della giungla… Sono anche stata testimone di manovre sistematiche e costanti da parte dell’UNAMID e del sistema ONU, fino ad arrivare all’ufficio del Segretario Generale,[5] che miravano a nascondere questi crimini. I rapporti dell’ONU espongono spesso i fatti in maniera selettiva, quando si tratta di presentare la missione come un successo. …Non inganniamo noi stessi, la guerra in Darfur non è una guerra civile. E’ una guerra contro la popolazione civile locale.”

Campo profughi in Darfur

In una situazione così atroce, con i civili presi di mira e sterminati a migliaia, che l’ONU non osi indagare su crimini contro l’umanità, ma offra copertura, non si curi delle mancanze dei propri funzionari o del proprio malfunzionamento, addirittura falsifichi la verità fattuale, fa paura. L’ONU fu creata dopo la seconda guerra mondiale come suprema istanza di giustizia di politica internazionale e baluardo a protezione dei diritti umani, in pace e in guerra, forza di mediazione sempre super partes.

Mi è tornata in mente la denuncia coraggiosa di Aicha Elbasri il 16 luglio 2020, quando ho letto della morte in un’area della Colombia tra le più pericolose, il Caquetà, in circostanze altamente sospette, del volontario ONU Mario Paciolla. E da allora regolarmente controllo cosa esce di nuovo sul “caso”, che ormai appare chiaramente essere stato un omicidio infame, avallato dai suoi superiori, se non commissionato. Crimine finora rimasto impunito, non solo, ma che dall’inizio è stato mascherato da suicidio. 

Mario Paciolla

Mario Paciolla faceva parte della Missione di Verifica ONU sull’accordo di pace stipulato all’Avana nel novembre 2016 tra le FARC, le Forze armate rivoluzionarie colombiane, e il Governo, che tracciavano il cammino verso la pace dopo cinquanta anni di guerra. Frange ribelli di guerriglieri non accettarono i termini dell’accordo e continuarono la loro battaglia. Le tappe di quel cammino tracciato penarono e penano ad essere applicate, per cui il compito della Missione era complicato e insidioso. Molti i nemici e gli ostacoli, molte le forze che remavano contro. Mario Paciolla abitava a San Vicente del Caguan, a 50 km dalla capitale Florencia. Aveva avuto scontri anche aspri con colleghi e superiori all’interno della Missione e aveva deciso di anticipare la sua partenza per l’Italia. Era consapevole di essere in una situazione scomoda, in una contesto di per sé infido. Ne aveva parlato con la giornalista de El Espectador, Claudia Julieta Duque, una cara amica, e con la madre, affermando di sentirsi “sporco”, di essersi messo in un guaio, e quindi di guardare alla partenza per Napoli, città natale, per evadere da una situazione pesante. Era stato addirittura accusato di essere una spia in una riunione con colleghi di lavoro. Che cosa fosse stato lo scandalo si può arguire da rivelazioni emerse post-mortem e pubblicate sul quotidiano El Espectador. Si suggerisce che alla radice del suo suicidio-omicidio ci siano state “ le sue rimostranze quando si era reso conto che l’informativa, da lui redatta insieme a collaboratori stretti, relativa al bombardamento nell’agosto del 2019  di guerriglieri dissidenti nel quale morirono sette minori (reclutati forzosamente) ed altri furono finiti a terra, era stata fatta filtrare al senatore Roy Barreras, e aveva causato le dimissioni del Ministro della Difesa Guglielmo Botero nel novembre dello stesso anno”.[6]

Quanto alla montatura del finto suicidio non ci possono essere più dubbi. Il cooperante era pronto a partire la mattina del 15 luglio per Bogotà, quando fu trovato impiccato nella sua casa con i polsi tagliuzzati. Aveva appena comperato il biglietto d’aereo, sistemato i permessi, avvisato l’ambasciata italiana della sua partenza, aveva chiesto alla madre di preparargli in frigo i pomodori per le friselle e il limoncello. La giornalista sua amica rivela che avesse tolto il lucchetto a una grata dal tetto per prepararsi una eventuale via di fuga, quindi si sentiva in pericolo. Una compagna di lavoro lo trova impiccato la mattina del 15 luglio e avvisa la giornalista-amica. Il giorno seguente giunge nella casa di Paciolla un funzionario ONU, Christian L. Thompson Garzón, allora Capo della Sicurezza a San Vicente, poi promosso a Capo nazionale del Centro di Operazioni di Sicurezza. Fa tutto ciò che non si deve fare in uno scenario in cui si può sospettare un crimine: fa lavare il pavimento con varechina, fa sparire tutte le tracce di sangue e peggio ancora tutti gli effetti personali del morto, compreso il computer e le agende che finiscono in una discarica. Aberrante. La madre di Paciolla riceve una fredda telefonata nella quale le si annuncia la morte del figlio e le si chiede se desidera il rimpatrio della salma!  L’autopsia eseguita a Florencia alla presenza del medico della Missione di Verifica ONU depone frettolosamente a favore dell’ipotesi di suicidio. Il cadavere che arriva in Italia è in pessime condizioni[7] secondo gli esperti dell’Istituto di Medicina Legale italiano. Tuttavia dall’autopsia eseguita dal medico legale italiano Vittorio Fineschi emergono palesi le indicazioni che di suicidio non si può trattare.” Le ferite post mortem, la posizione della sedia su cui si sarebbe impiccato, lo strangolamento previo alla morte per asfissia, l’altezza della grata a cui è stato appeso il lenzuolo sono alcuni degli elementi che portano Fineschi a determinare che con “ragionevole certezza” Mario non si è suicidato.”[8] Le ferite al polso della mano destra mostrano segni di reazione vitale, ad esempio, cioè sono inferte mentre Mario è vivo, mentre quelle al polso sinistro evidenziano una debole o nulla reazione vitale, quindi non possono essere state auto-inferte.

La famiglia ha sporto denuncia contro Christian Thompson e il suo superiore, i responsabili ONU che hanno distrutto le eventuali prove dell’assassinio e avallato questo comportamento. E’ eloquente la promozione del primo: non solo copertura ma carriera. Sono vergognose la passività e l’inazione diplomatica della Farnesina al riguardo, e assurda oltre che infondata la richiesta di archiviazione della Procura di Roma dell’ottobre 2022, a un mese dalla archiviazione del caso in Colombia, di cui leggo sul Napoli Monitor del 15 luglio[9]. La famiglia si è ovviamente opposta.

Si potrà sperare che la verità emerga in modo incontrovertibile?



[1] Nel Darfur, l’Onu nasconde crimini di guerra. Il falso successo di una missione di pace.

[2] Sulla presunta “arabità” degli assalitori sudanesi c’è molto da discutere, e ricordo un lungo saggio di molti anni fa su Politique Africaine, rivista specializzata, sulla autodefinizione di “arabi” sudanesi del tutto campata per aria, una identità fantasmatica.

[3] https://en.wikipedia.org/wiki/Aicha_Elbasri

[4] Circa 20.000 persone tra soldati e poliziotti

[5] Allora il Segretario Generale era Ban ki-Moon

[6] https://www.elespectador.com/colombia/mas-regiones/mario-paciolla-dos-autopsias-contradictorias-y-un-sello-de-impunidad/; https://www.elespectador.com/colombia/mas-regiones/mario-paciolla-justicia-para-un-poeta-article/

[7] Articolo sopra citato

[8] https://ilmanifesto.it/mario-paciolla-quel-suicidio-mai-indagato

2 commenti:

  1. Se anche l'Onu è corrotta, e se l'accertamento della verità è ostruito ad arte dai superiori, davvero non c'è più speranza

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  2. Spero che non sia vero. Dai dati offerti parrebbe di capire che chi ha reagito fossero i poteri colombiani anti-frange ribelli, che Paciolla aveva a ragione accusato di violenza; e che l'Onu non abbia voluto o potuto prendere le distanze da loro. Non mi è chiaro, se non il fatto che P. è stato suicidato. Qui l'Onu avrebbe dovuto reagire apertamente e con forza, non certo coprire il fatto. Se così è avvenuto, non c'è ragion di Stato che tenga, .

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