Translate

sabato 9 ottobre 2021

SHAKESPEARE'S SONNET XXIX- TRADUZIONE (mia)

SHAKESPEARE'S  SONNET XXIX

WHEN IN DISGRACE WITH FORTUNE AND IN MEN'S EYES

 


When in disgrace with Fortune and in men's eyes,

I all alone beweep my outcast state,

And trouble deaf heaven with my bootless cries,

And look upon myself and curse my fate, 

Wishing me like to one more rich in hope, 

Featured like him, like him with friends possessed,

Desiring this man's art, and that man's scope,

With what I most enjoy contented least,

Yet in these thoughts myself almost despising,

Haply I think on thee, and then my state

(Like to the lark at break of day arising

From sullen earth) sings hymns at Heaven's gate,

For thy sweet love remember'd such wealth brings

That then I scorn to change my state with Kings.


TRADUZIONE MIA

 

Quando in disgrazia alla sorte e all'altrui sguardo

Tutto solo mi piango, da reietto,

E invano il cielo sordo io tempesto,

Mi guardo addosso e maledico il fato,

Bramando esser colui che molto spera,

Avere le sue fattezze, e amici al fianco,

Vorrei dell'uno l'arte, d'altri il potere,

Son scontento di ciò di cui più godo,

Ed in tali pensieri disprezzandomi,

Se il pensiero di te balena, l'animo

Mio s'invola (come allodola al mattino

Dal buio della terra) e canta al Cielo,

Ché il dolce amore tuo rimemorato

Tanto vale, che d'un re recuserei lo stato.


mercoledì 6 ottobre 2021

CYBERCRIMINALITA'

 

CHI SONO I CYBERCRIMINALI?

 

Joan Mirò

Per quanto riguarda l’Italia, il pericolo di attacchi informatici a importanti strutture pubbliche con momentanea paralisi dei servizi connessi è clamorosamente emerso l’estate scorsa, con il blocco dei servizi sanitari della Regione Lazio. Ma da vari anni si moltiplicano in tutto il mondo i casi di sabotaggio a grandi società, a centri di ricerca e ad aziende private, con richiesta di riscatti esosi, pena la distruzione di montagne di dati o blocco di servizi essenziali alla comunità. Il fenomeno è più diffuso di quanto si pensi, poiché la maggior parte degli attacchi meno gravi rimane segreta: le vittime pagano, tacciono e non divulgano per ragioni di privacy e di reputazione. Il fatto che i riscatti vengano pagati in cripto-moneta, prevalentemente bitcoin, la cui produzione tra l’altro è estremamente energivora, suggerirebbe che uno strumento per limitare se non eliminare questo genere di delitti potrebbe essere l’abolizione da parte delle istituzioni finanziarie internazionali delle cripto-monete e l’impossibilità (totale) di cambiarle in valuta a corso legale. Un bel colpo a tutte le economie sporche. Ma viene il dubbio, e più che un dubbio, che non si voglia fare questo, che il flusso di denaro sporco sia talmente incistidato dentro il funzionamento dell’economia finanziaria mondiale “pulita”, che sia utopistico pensare che si possa realizzare.

Mi è parso comunque utile tradurre quasi per intero un servizio apparso quest’estate sul quotidiano Le Monde weekend che esordisce con un’intervista ad un protagonista di questo nuovo genere di delinquenza digitale. Un singolare tipo di mascalzoni con laurea e in giacca panciotto e cravatta, apparentemente insospettabili.

CYBER-CRIMINALITA’

ALLA RICERCA DELLA “FALLA” (22-23/08/2021)

Di Betrand Monnet[1]

OCCHIELLO:

Geopolitica delle mafie: In tutto il mondo diversi gruppi di pirati informatici praticano il ransomware[2], la versione 2.0 del sequestro con richiesta di riscatto. Il fenomeno è diventato talmente frequente che Interpol è arrivato a considerarlo una questione prioritaria.

“Dal mese di gennaio abbiamo guadagnato 37 milioni di euro in cripto-moneta, e l’anno non è ancora finito, i soldi ci piovono addosso ogni giorno!” L’uomo che pronuncia queste parole si trova in una grande capitale europea e fa parte di un potente gruppo di cyber-criminali. Mark, chiamiamolo così, è ben lontano dall’immagine che possiamo avere dello hacker, un ragazzotto maniaco di informatica davanti al suo computer in qualche casolare di campagna o garage. E’ invece un quadro trentenne di una società di ingegneria informatica, ha una specie di doppia vita, e la sua seconda identità gli frutta certamente ben di più di quella ufficiale. 

Foto su Le Monde, panoramica della rete criminale in questione

Su Internet coesistono molti tipi di pirati informatici; alcuni, come Anonymous, sono degli hack-tivisti e assicurano di svolgere una missione sociale, bloccando ad esempio i siti di imprese che inquinano, o infiltrandosi in quelli della polizia di Minneapolis in nome della lotta contro il razzismo. Altri gruppi di pirati, noti con gli pseudonimi di APT12, APT41 o Lazarus, sono in un certo modo “hackers di Stato”, mercenari digitali che attaccano migliaia di imprese e amministrazioni per conto di servizi segreti, in particolare russi, cinesi e nord-coreani, che evitano così di lasciare tracce che possano allertare i loro rivali occidentali. Mark e i suoi complici appartengono ad un’altra categoria. Non servono né una causa né uno Stato. Il loro unico obiettivo sono i soldi, come i narcos sudamericani e i mafiosi italiani. La loro specialità è il ransomware, ovvero la versione 2.0 del sequestro con richiesta di riscatto. Questo tipo di attacco cyber si basa sull’installazione di un malware, un programma maligno, sul computer o sul server della vittima. Una volta installato, il programma crittografa tutte le informazioni ivi contenute e le rende inaccessibili.

Quando sono hackerati in questo modo, i soggetti bersagliati scoprono sullo schermo un messaggio di questo tipo:” I suoi dati sono stati crittografati. Non abbia paura, lei ha 96 ore per pagarci 40 bitcoins e così ottenere la chiave per recuperarli. Trascorso questo intervallo, i suoi dati saranno distrutti o pubblicati su Internet. Se pagherà prima di 48 ore avrà uno sconto speciale del 25%. Se lei non possiede bitcoins, segua questo link per aprire un tutorial che l’aiuterà a creare il suo portafoglio in cripto-moneta”. In pochi anni il ransomware è diventato un crimine così diffuso che Interpol ha organizzato un forum su questo argomento il 12 luglio scorso. Il suo segretario generale, il tedesco Jürgen Stock, ha dichiarato che la lotta contro questo flagello deve mobilitare gli stessi mezzi di quelli utilizzati per combattere organizzazioni criminali del calibro della ‘Ndrangheta, la mafia calabrese. 

Joan Mirò

Infatti questi furti informatici possono avere ripercussioni a livello planetario. Nel 2017 i malware finalizzati al riscatto WannaCry e NotPetya –quest’ultimo era verosimilmente un virus mascherato da ransomware – provocarono dei terremoti digitali paralizzando centinaia di amministrazioni e infrastrutture nodali in 150 paesi e impedendo l’attività di migliaia di imprese per parecchi giorni. Tra loro c’era anche Maersk, il principale armatore mondiale, cui questo attacco costò 300 milioni di dollari in dieci giorni. Ogni giorno decine di attacchi del genere vengono lanciati attraverso il pianeta, sia che si tratti di cyber-criminali come Mark o di hacker di Stato decisi a danneggiare i loro nemici mascherandosi da criminali comuni. In questi ultimi mesi diversi fatti clamorosi hanno reso evidenti le dimensioni del fenomeno. Il 7 maggio, negli Stati Uniti, uno degli oleodotti che alimentano di carburante la Costa Est ha dovuto essere bloccato per due giorni: i server che controllano il sistema di fatturazione del proprietario, Colonial Pipeline, erano stati crittografati. Privata d’accesso al database, l’impresa non poteva più sapere a chi l’oleodotto distribuiva il carburante. Dopo due giorni in cui gli automobilisti si precipitavano alle stazioni di servizio e un aumento fugace dei prezzi alle pompe, Colonial Pipeline ha pagato un riscatto di 4,5 milioni di dollari in bitcoin agli hacker del gruppo Dark Side (lato oscuro), all’origine dell’attacco. Dopo di che il servizio è stato riattivato. Il 2 luglio è stata la catena di supermercati svedese Coop a dover chiudere 800 punti vendita in poco più di 24 ore per un caso di forza maggiore: i registri di cassa non funzionavano più. La società che fornisce il software di gestione delle casse utilizza il programma VSA dell’impresa americana Kaseya, i cui server erano stati crittografati da un ransomware probabilmente installato dagli hacker russi di un gruppo chiamato REvil[3]. Kaseya rifornisce 40.000 clienti in tutto il mondo. Solo negli Stati Uniti 1000 clienti sono stati colpiti dal malware. E’ stato lo stesso Presidente USA a doversi interessare al problema, ordinando un’inchiesta per determinare l’implicazione eventuale della Russia in questo attacco digitale di un’ampiezza mai osservata dal 2017.

Bouygues, Saint-Gobain, Telefonica, NZX (la Borsa della Nuova Zelanda), la compagnia marittima CMA-CGM…in questi ultimi quattro anni migliaia di imprese sono state prese di mira, ma anche centri amministrativi, università, ospedali, e milioni di individui. Secondo l’Agenzia nazionale per la sicurezza dei sistemi informatici (Anssi), il numero di attacchi denunciati nel 2020 è aumentato del 255% rispetto al 2019. Non tutti hanno ceduto al ricatto.

Per i cyber-criminali questo business è tanto più un affarone in quanto l’investimento necessario (per realizzarlo) è di dimensioni ridotte. A quanto afferma Mark, il suo gruppo lavora con un malware comprato sul dark Net, il mercato nero di Internet, per 2500 dollari in bitcoin, un dispositivo che loro stessi hanno migliorato. I riscatti pagati dalle loro vittime vanno da 100.000 a un milione di euro, in funzione delle loro dimensioni e della capacità stimata di pagamento. Risultato: il rendimento di un’operazione oscilla tra 4500% e 45.000%!

Joan Mirò

Tuttavia realizzare questo tipo di estorsioni richiede metodo. Il phishing, cioè l’invio di grandi quantità di email fraudolenti, o l’invito a caricare delle applicazioni infette, il furto di password, sono tutte tecniche che servono a inserirsi su un computer e installarvi il malware. “In genere il mio gruppo usa la stessa vittima designata come porta d’ingresso del malware”; da qui l’importanza di procedere prima a un lavoro esplorativo su internet per identificare l’obiettivo giusto, ultimamente puntando l’attenzione sui quadri dirigenti di grandi banche.

La prima tappa consiste nel passare in rivista le multinazionali finanziarie: si tratta di identificare i nomi, le funzioni e gli indirizzi mail di vicepresidenti e direttori accessibili da parte del pubblico. Una volta deciso l’obiettivo si invia una mail facendo credere che l’allegato o il link proposto siano perfettamente sicuri mentre sono già stati “caricati” con il software infetto. Se la vittima clicca sulla trappola, il ransomware migra immediatamente sul suo computar e sui server cui è collegato. Per far sì che questi morda l’esca, Mark e i suoi complici devono riuscire a camuffarsi dietro l’email di un corrispondente abituale della vittima o di un negozio online dal quale compera frequentemente. Per arrivare a questo, il gruppo criminale passa al pettine tutto l’entourage dell’obiettivo attraverso le tracce informatiche lasciate: Linkedin, Facebook, Twitter, Instagram, amici e relazioni professionali, le scuole e università frequentate, numeri di telefono, ecc. Si arriva a identificare la sua banca, la sua assicurazione sanitaria, l’hotel dove ha passato le vacanze, i suoi abbonamenti a Amazon, a Netflix e via dicendo. Queste informazioni più personali vanno cercate sul dark Net, quella parte oscura del web dove, in mezzo a una marea di video pornografici, traffici di droga e armi, è possibile comprare per poche decine di dollari montagne di informazioni riservate su milioni di individui, rubate da altri hacker ad amministrazioni e imprese mal protette e messe in vendita su delle piattaforme conosciute dagli iniziati. Anche per degli hacker esperti, questo lavoro minuzioso richiede settimane; si tratta di mettere a punto il camuffamento digitale credibile che supererà la diffidenza e la vigilanza del loro obiettivo. Una volta che è tutto pronto, l’attacco è lanciato. Ma prendere di mira multinazionali e imprese comporta il rischio di attirare l’attenzione di studi specializzati in sicurezza informatica e servizi statali decisi a eliminare in futuro simili minacce di riscatti informatici. Quindi Mark e il suo gruppo hanno pensato fosse più prudente diversificare i loro obiettivi e orientarsi verso vittime meno in vista. “In sei anni abbiamo colpito più di duemila obiettivi. Imprese, ma anche quadri superiori, gente che può pagare almeno 100.000 euro in cripto-moneta. E credimi, pagano, perché altrimenti noi pubblichiamo o vendiamo tutti i loro dati che abbiamo crittografato: dati sensibili sulla loro impresa, avvisi giudiziari, estratti conto bancari, email confidenziali, video compromettenti…pagano perché hanno paura del licenziamento o della pubblicazione di fatti intimi. E noi possiamo colpire anche di nuovo, nessun esperto informatico sarà chiamato in soccorso”.

Schema del DDoS, da Le Monde

Un altro business di Mark è il cosiddetto DDoS, in inglese, Distributed Denial of Service, che consiste nel saturare di connessioni un sito internet e così bloccarlo o rallentarlo, impedendogli di funzionare normalmente, non per derubarlo ma per danneggiarlo e rovinare la sua reputazione. E’ un tipo di attacco usato dagli hack-tivisti e gli hacker di Stato, che possono aver bisogno dell’aiuto di hacker criminali come Mark e la sua banda, dietro pagamento adeguato. Lo strumento usato a tale scopo è un botnet, una rete di centinaia di migliaia di computer infettati da un malware particolare che, senza che i proprietari se ne rendano conto, li collegherà nello stesso istante allo stesso website. E’ sempre Mark che parla: “Abbiamo tre dei migliori botnets sul mercato, con più di trecentomila connessioni a computer, tablet, cellulari che possono a loro volta infettare molti altri dispositivi! Ognuno di essi è specializzato per un tipo di obiettivi particolari. Non è da tutti avere questa potenza d’urto, e io la noleggio a chi ne ha bisogno: possono essere attivisti, servizi di Stato, imprese, impiegati che vogliono sabotare la loro impresa, organizzazioni criminali, imprese…Poco m’interessa, un attacco DDoS con il nostro botnet costa tra i 5000 e i 7000 dollari in cripto-moneta”.

Ordinare un attacco di questo tipo è di una semplicità agghiacciante: ancora una volta, si svolge tutto sulla dark Net. Il cliente deve attivare la VPN (virtual private network, rete virtuale privata) sul suo computer, poi utilizzare il browser Tor per collegarsi come anonimo a uno dei numerosi forum dove potrà chattare con gli hacker che praticano il “cybercrime as a service”[4] e infine giungere ad avere una conversazione privata con uno dei membri del gruppo. Dopo che il cliente ha indicato qual dovrebbe essere l’obiettivo da paralizzare, l’hacker del gruppo di Mark compie una ricognizione rapida sui suoi sistemi informativi per essere sicuro di poter fornire un servizio di qualità, perché, a quanto dice Mark, un numero crescente di imprese utilizza dei servizi di sicurezza efficaci contro gli DDoS, come il Cloudflare[5] ad esempio. Quindi rispondiamo positivamente o no a seconda dei casi”.

Joan Mirò

Se l’obiettivo sembra vulnerabile, il cliente paga in anticipo la somma pattuita sul conto in cripto-moneta del gruppo; in media, Mark e i suoi complici effettuano dieci attacchi DDoS al mese contro ogni tipo di obiettivo. In giugno (2021), a dire di Mark, avrebbero colpito varie multinazionali e due ministeri europei. L’organizzazione di questi gruppi differisce da quella delle cosche mafiose. Anzitutto in termini numerici; Mark ad esempio ha soltanto quattro soci. Un’altra differenza riguarda i legami con l’esterno: i membri di un cartello messicano o di un clan camorristico hanno ambedue dei collegamenti sul territorio ben definiti, a volte legami di sangue. Mark e i suoi “colleghi” non si sono mai incontrati e si conoscono solo attraverso degli pseudonimi. Si sono conosciuti su dei forum specializzati del dark Net prima di decidere di mettersi insieme, sette anni fa. Da allora, lavorano insieme 24 ore su 24 da punti diversi del globo, tre di loro in Europa, e gli altri due in India e in Brasile. Sono tutti sullo stesso piano per quanto riguarda la divisione degli utili che sono suddivisi su conti in cripto-moneta, visibili e facili da controllare. Quello che li unisce è principalmente una rara conoscenza dei lati oscuri del web e una fatale attrazione verso l’esplorazione dei suoi lati vulnerabili. “Ho cominciato quando avevo 15 anni”, confessa Mark. “Il mio primo attacco è stato contro una ditta della società Solaris Sun. E’ stato un colpo di fulmine, mi sono innamorato di quel che facevo”.

Quando il carico di “lavoro” è eccessivo, usano il subappalto, ma non acquisiscono altri soci…” Altri hacker mi forniscono dei servizi”, prosegue Mark, “ma senza fare parte del gruppo, li pago a cottimo, cento dollari a missione. Sono compiti facili e senza rischi. Io ne ho tre, non so quanti ne abbiano gli altri membri del mio gruppo, non mi riguarda”. Non collaborano con altri gruppi, mai con hack-tivisti come Anonymous. “Non abbiamo niente in comune con loro; di gruppi che lavorano come noi ce ne sono parecchi…abbiamo contatti con tre di loro in Europa, ma non collaboriamo. A volte ci scambiamo informazioni su un Zero-Day (una falla informatica scoperta di recente e non ancora sfruttata) o cose di questo tipo, ma non di più”. E per comunicare si usano procedure segrete, mai Telegram, Signal o Whatsapp.

Anche per dei cyber-criminali consumati, la paura di un arresto è sempre presente. Tutti loro ricordano i nomi di “colleghi” pizzicati recentemente: Srikrishna in India nel novembre del 2020, tre individui di un gruppo sospettato di lavare gli introiti in cripto-moneta in Ucraina, in giugno, Graham Ivan Clark in California a luglio, “Dr Hex” in Marocco, nel marzo scorso (2021). Certo, i soci di Mark hanno dei profili insospettabili, come lui, ma possono essere vulnerabili soprattutto nel momento dell’attacco. “La regola è non attaccare mai dalla città dove sei in quel momento – dice Mark – Potresti essere localizzato. Nei momenti cruciali io mi connetto sempre da un’automobile girando in una grande città più lontana, con un sistema che mi permette di collegarmi a delle reti Wifi successive. Si chiama fare air cracking, mi piace molto.”

Operazione di lavaggio del denaro sporco

L’altra fase rischiosa è quella dell’incasso dei soldi estorti. Convertire le loro centinaia di migliaia di litecoins[6] in valuta reale e rimpatriare le somme attirerebbe l’attenzione di banche e servizi di polizia. Utilizzare direttamente le cripto-monete è difficile in quanto le possibilità di acquisto e investimento con le valute virtuali sono limitate. Ma il dark Net propone diversi servizi di lavaggio di cripto-monete che permette agli hacker di usare una carta di credito bancaria caricata con diverse decine di migliaia di dollari e pagare il proprietario in bitcoins, litecoins o ethers[7], con una commissione del 10% per ogni transazione. Non è nulla rispetto ai milioni di euro che il gruppo incassa ogni anno. Non precisa nulla ma fa capire che sta cercando di creare un sistema di lavaggio più efficace corrompendo dei banchieri. Ma conclude. “In ogni caso, non mi interessa più che tanto perché, per me, fare lo hacker non è solo un lavoro, ma una passione”.

 

 



[1] Professore a l’Edhec, titolare della Cattedra “Management dei rischi criminali”. In questo ruolo si è interessato a questa forma di criminalità online e negli anni ha finito per stabilire rapporti confidenziali con “Mark” (l’intervistato).

[2] Neologismo coniato su ransom in inglese= riscatto e ware, suffisso di software= programma informatico (logiciel in francese); poi malware= programma digitale infetto

[3] EvIl in inglese significa male, il male per antonomasia.

[4] Crimine digitale in quanto servizio

[5] Cloudflare, Inc., con sede a San Francisco è un’infrastruttura web americana e una compagnia specializzata in sicurezza web che fornisce strumenti di mitigazione e protezione contro i DDoS e servizi analoghi (wikipedia).

[6][6] Litecoin è una cripto-valuta peer-to-peer ed un progetto di software open-source rilasciato con licenza MIT/X11 (wikipedia). Un litecoin vale 154,96 euro (6 ottobre 2021). Nello stesso giorno, 1 bitcoin vale 47.001,34 euro.

[7] Ethereum è una piattaforma decentralizzata del Web 3.0 per la creazione e pubblicazione peer-to-peer di contratti intelligenti creati in un linguaggio di programmazione Turing-completo. Per poter girare sulla rete peer-to-peer i contratti di Ethereum pagano l’utilizzo della sua potenza computazionale con una unità di conto detta ether, che differisce dalle altre cripto-valute perché funge anche da carburante per far girare i contratti basati su Ethereum. Ha avuto valori diversi come moneta virtuale, nel 2021 ha avuto un picco di oltre 4.370 dollari. Turing-completo o equivalente significa che il modello di calcolo ha lo stesso potere computazionale di una macchina di Turing universale (wikipedia).

mercoledì 1 settembre 2021

SHAKESPEARE’S SONNETS:SONNET XV (Traduzione mia)

SONNET XV

Stazzo


When I consider every thing that grows

Holds in perfection but a little moment,

That this huge stage presenteth nought but shows

Whereon the stars in secret influence comment;

When I perceive that men like plants increase,

Cheered and checked even by the selfsame sky,

Vaunt in their youthful sap,  at height decrease, 

And wear their brave state out of memory;

Then the conceit of this inconstant stay

Sets you most rich with youth before my sight,

Where wasteful Time debateth with decay

To change your day of youth to sullied night,

And all in war with Time for love of you

As he takes from you, I engraft  you new.


SONETTO XV 

Quando io penso che ogni cosa viva

Solo un istante attinge il suo apogeo,

Che si’ gran palco è fatto di apparenze

Su cui arcani gli astri hanno influenze;

E crescer vedo umani come piante,

Arrisi e stronchi da quello stesso cielo,

Fieri di verde linfa, poi afflosciarsi

In vetta, e gloria divenire oblio;

Ora all’idea di tale incerto stato

Di gioventù si’ colmo tu m’appari

Mentre il Tempo vorace con Rovina

Tratta, a imbrattare in notte la tua luce,

Per amor tuo al Tempo muovo guerra,

Ciò che ti toglie, io innesto in nuova terra.




 

venerdì 30 luglio 2021

LA VERA STORIA DEL GRUPPO DIONISO IN SARDEGNA ovvero

L’INVENZIONE DELLA TRADIZIONE E

LA CENA DI SISINNIO


L’immagine mostra non il primo, come si legge in qualche website, ma uno dei murales che  dipingemmo sui muri di Orgosolo in quell’estate indimenticabile del 1969. Oggi ce ne sono a decine e costituiscono un documento sociale, culturale e umano emblematico, imitato in molti paesi dell’isola (https://pinterest.it). E mai allora lo avremmo immaginato.


Il Gruppo teatrale Dioniso, autore dei primi murales orgolesi, era composto da poche persone. Ci eravamo conosciuti in primavera a Milano alla Casa dello Studente e del Lavoratore, ex Hotel Commercio occupato da studenti e lavoratori senza casa, che era diventato un centro di organizzazione e discussione per la sinistra extraparlamentare locale. L’iniziatore era Giancarlo Celli, uomo di teatro da anni, regista e ribelle, anti borghese e dichiarato anarchico. Io propendevo più per un approccio marxista ma le sottigliezze ideologiche non ci interessavano troppo. Il teatro di strada si, un teatro mobilitante, di presa di coscienza di nuove realtà o della propria, quello ci interessava e univa. Avevamo in mente le imprese del Living Theater e Giancarlo era un patito di Jerzy Grotowski. Iniziammo con la lotta per lo sciopero degli affitti troppo alti e contro gli sfratti delle famiglie che lo praticavano da parte di squadre di poliziotti. Anche gli affitti delle case popolari, oggi un lontano ricordo per molti, erano eccessivi per operai o peggio disoccupati. Così mettemmo in piedi un intervento a Quarto Oggiaro, nella periferia di Milano.

Manifestazione a Pratobello, Orgosolo, 1969

In giugno i pastori di Orgosolo insorsero contro l’occupazione dei loro  pascoli a Pratobello da parte dell’esercito per farne un poligono di tiro per l’estate (www.infoaut.org). Tutta la popolazione fu solidale e il poligono non si fece. Questo fatto di cronaca ampiamente riportato dai giornali ci fece intravedere un orizzonte di intervento diverso e più eccitante di Milano. L’alone di esotismo che circondava la Sardegna, il ribellismo dei banditi sardi, la leggenda di Graziano Mesina (che oggi pare sia di nuovo latitante a 78 anni), nell’atmosfera bollente della contestazione sociale di allora furono tutti fattori che ci spinsero a decidere di partire per la Sardegna e ideare un tipo di intervento con varie componenti che favorisse la prosecuzione della lotta antimilitarista. In poco tempo tra compagni, amici, conoscenti, parenti e simpatizzanti facemmo una colletta per sostenere le spese di viaggio e soggiorno, contando su futuri contributi locali e sulla buona sorte e sbarcammo a piccoli scaglioni nei primi giorni di luglio a Golfo Aranci. 

Nuraghe vicino a Orgosolo

Ricordo la prima impressione della Sardegna nel viaggio tra la Gallura e Siniscola fino a Sa Caletta, un minuscolo gruppo di case su una spiaggia incantevole dove si era installato  l’accampamento delle nostre canadesi e “la cucina”. I compagni arrivati nei giorni precedenti avevano già solidarizzato con gli abitanti, quasi tutti pescatori, e nella capace Ford di Giancarlo (arrivata per prima con tutto il nostro armamentario professionale e logistico) c’era qualcuno che mi disse, accennando alla fittissima macchia verde cupo su entrambi i lati del nastro d’asfalto che percorrevamo: “ Se entri qui e fai qualche metro, non ne esci più”. Fu la stessa impressione che provai poi in Messico nel 1984 guardando la giungla intorno all’autobus  sulla strada da Cancun a Cozumel. Impenetrable. Una muraglia profumata. Oggi non ce n’è più traccia.

Nelle poche settimane, forse due  o tre, preparammo la nostra piece teatrale militante che finiva in un coro, un inno alla ribellione, con l’allora famoso “Contessa” di Pietrangeli (https://youtu.be/QcNhFggo8).

Mamutones, Mamoiada

L”incontro con la Sardegna di allora fu per me un violento shock culturale, un antipasto della mia futura carriera di “straniera professionale”, ovvero di cooperazione internazionale. La vita dei pastori su negli ovili, il cibo, la durezza delle loro condizioni di vita, quelle donne intabarrate nelle loro lunghe gonne nere con la testa coperta da uno scialle, la lingua incomprensibile e l’asprezza del paesaggio - ricordo Monte Albo dove partecipammo a uno “spuntino” a base di montone bollito, vino e carta e’ musica, il pane karasau che oggi si trova nei supermercati -  erano lontano anni luce dalla vita di studentessa che avevo appena concluso con la laurea ad aprile. Già passare dall’esegesi dell’Ulysses di Joyce a Lenin e Marcuse era stato un bel salto, ma la Sardegna era terra incognita totale, nonostante le mie letture affrettate nella biblioteca Sormani a Milano. E non ero la sola a provare quel profondo senso di spaesamento. Ma il teatro, il dialogo maieutico, l’osservazione che poi saprò si chiama partecipante, soprattutto l’onestà intellettuale e la solidarietà umana furono le leve che usammo e funzionarono almeno in parte. Anche se fu dura, non tanto a Sa Caletta, che fu un prologo, ma quando iniziammo a presentarci come gruppo teatrale e ad agire, a Mamoiada. 

Intanto il nostro gruppetto iniziale era cresciuto con arrivi di compagni e compagne, quasi tutti e tutte dell’Accademia di Brera, il che facilito’ l’uso dei murales come strumento di discussione e coscientizzazione, termine caro a Paulo Freire, il grande pedagogista brasiliano. A Mamoiada  avemmo il piacere di ricevere una visita notturna di fascisti che scesero da Sassari con mazze e spranghe per assalirci di notte nel nostro accampamento di tende canadesi, attentato sventato fortunosamente dall’udito finissimo del mio compagno che uscì dalla tenda mezzo nudo e fermò la prima mazzata. Dopo di che da buoni coscientizzatori cercammo il dialogo per entrare in contatto umano, con successo; il massimo fu l’offerta di compresse per il mal di testa a un fascista che si lamentava di emicrania. Ringraziamenti, catarsi  e ritirata. Il fatto fini’ sui giornali e ci procurò solidarietà e amicizie. 

Mamutones, Mamoiada

Potente fu l’impressione della danza dei Mamuthones in piazza (https://it.m.wikipedia.org/wiki/Mam); tutto mi riusciva di difficile decrittazione, così come le monotone melodie degli scacciapensieri che duravano …interminabilmente. Ho ascoltato qualcosa di simile molti anni dopo in un villaggio del Mali, nel Beledougou.

Dopo la nostra rappresentazione teatrale, che non so quanto fu compresa ma destò curiosità, procedemmo verso il vero obiettivo della nostra spedizione: Orgosolo, la terra dei ribelli. Che però, scoprimmo, era non solo popolata da servi pastori e reietti ma dai padroni delle greggi che rivoluzionari non erano affatto. E da donne che apparivano sfingi distanti, diffidenti e indecifrabili. Vestite sempre di nero o marrone.

Dipinto: un angolo di Orgosolo, data?

L’abitato era molto più ridotto di oggi, composto di casette basse e piccole tanche; ci stabilimmo su un campo di patate, vicino a una fonte da cui scendeva un filo d’acqua supposta potabile, sopra il paese.

E cominciammo il nostro intervento in tutte le sue componenti: un dottor Satutto (chiaramente il capocomico Giancarlo) dalla macchina in piazza rispondeva “a tutte le domande”, volantinaggi con discussioni, sedute al bar con giro classico di inviti reciproci la cui tariffa convenzionale minima era di trenta lire, e infine, prima dell’intervento teatrale, dipingemmo il primo murale. Che ricordo benissimo ma non c’è più.

Si era ad agosto e l’impressione lasciata dalla passeggiata di Armstrong sulla luna che tutti avevano visto in televisione almeno al bar era profonda. Cosa c’era di meglio per sottolineare l’abissale distanza tra le condizioni durissime di vita negli ovili dei pastori, la povertà e la disoccupazione della Barbagia e la tecnologia miliardaria del capitalismo americano che guardava al cielo e non sulla terra e alle sue miserie? Quindi scegliemmo la liscia parete di una volta a destra del corso principale - fu demolita non so quando - e vi dipingemmo al centro un’astronave ritta sulla scabra superficie lunare, con a destra Armstrong nella sua tuta con scafandro e a sinistra un servo pastore, forse con pecore o forse no, non ricordo. Ci avevano detto che un servo pastore era stato pagato per il suo lavoro di un anno con “un cappotto “. Il murale è stato riprodotto altrove, ma non è l’originale.

La contraddizione e la denuncia sociale furono chiare a tutti e mentre si abbozzava il disegno e procedeva la nascita della scena moltissimi si fermavano a parlare, chiedere e commentare, e anche ad aiutare con qualche pennellata. Ma la direzione era dei compagni di Brera e di Giancarlo. Io ho la mano infelice e fui reclutata per il colore campito, in basso. E dopo questo exploit fioccarono richieste di negozianti che volevano insegne e qualche murale relativo al loro commercio, per cui ottemperammo questa volta dietro un piccolo compenso dato che le nostre finanze erano al lumicino. Ci furono vicini soprattutto i compagni del Circolo Culturale di Orgosolo, del quale faceva parte Francesco del Casino, l’insegnante che poi continuò il nostro lavoro politico attraverso questo linguaggio visivo riscoperto, così duttile e potente. In piccole riunioni chiedevamo che cosa si voleva che rappresentassimo, quali erano i problemi più scottanti. Ormai ci chiamavano “sos maoistas”, anche se Mao Tze Tung mai lo nominammo ne’ era un nostro riferimento ideologico. Erano stati influenzati dagli articoli non benevoli della stampa locale.


Credo che la soddisfazione più grande che purtroppo i compagni morti, e soprattutto il visionario Giancarlo, non hanno potuto provare, sia stata per me scoprire molti anni dopo come un intervento puntuale di un’estate impegnata si sia trasformato in una potente propaganda della forza della coscienza critica e in strumento di una trasformazione sociale auspicata, e non solo ad Orgosolo ma in molti paesi dell’isola. Cui in tanti hanno partecipato dando il loro contributo iconico nei cinquanta anni successivi. Anche se l’onda d’urto non è mai sfociata nella rivoluzione che avevamo sognato, neanche su scala regionale.

Verso la fine d’agosto, ormai quasi di casa, ci fu l’invito che testimoniò eloquentemente la sostanziale accettazione se non forse un’approvazione totale della nostra presenza e del nostro indirizzo politico. Il barista Sisinnio, grande cacciatore - aveva a casa trofei di teste di cinghiale su ogni parete e forse anche di mufloni - invitò a cena gli uomini del nostro gruppo. Invito rigorosamente rivolto ai soli maschi del Dioniso. Ormai molti studenti e operai erano partiti ed eravamo di nuovo ridotti al nucleo milanese iniziale: gli uomini erano solo quattro, come noi ragazze. La cucina nel campo di patate e la cassa comune semivuota non ci permettevano lauti pasti, per cui l’aspettativa dei quattro fortunati prescelti era elettrica. Carne! Formaggio! Vino a volontà!  E la nostra invidia era tanta. La sera fatidica attendevamo con ansia il resoconto della pantagruelica cena di Sisinnio. E il resoconto fu così esilarante che ancora scoppio a ridere quando mi torna in mente.

Al centro della tavola troneggiava una montagna semisferica di rosea carne brunita. Sisinnio, un omone  in giacca di velluto, aveva preso a tagliare con un coltellaccio fette di carne sottilissime e profumate che poi fece circolare. Tre super ingordi si servirono abbondantemente mentre un quarto, più prudente, si limitò a due modeste fettine adducendo un problema di denti. E fece bene. La conversazione cominciò a languire mentre i tre malcapitati cercavano di masticare e deglutire una carne inaspettatamente coriacea. Insospettabile. Era una mammella enorme di vacca! Come può una tenera mammella trasformarsi in pietra? Questo mistero non mi è mai stato chiarito. Mastica mastica la soluzione fu inghiottire e sperare nel proprio robusto stomaco. Segui’ il famoso pecorino stagionato con i vermi, la squisitezza che ogni proprietario di gregge sardo si fa e custodisce come bene prezioso da offrire ai suoi ospiti di riguardo. La barba di Sisinnio era tutta una contorsione di minuscoli vermetti  bianchi. Impossibile rifiutare: sarebbe stata un’offesa grave. Ci si sfogò con pane, vino di Oliena e vernaccia. Al ritorno i quattro compagni  sembravano sopravvissuti ad una battaglia campale.

In settembre rimanemmo in due, il mio compagno ed io, e l’ultimo intervento “pittorico” fu una smagliante scritta che sormontava l’entrata del bar di Sisinnio: BAR SISINNIO, situato a destra all’entrata del paese. Ma oggi il bar non c’è più e quando tornai ad Orgosolo nel 2014 per le celebrazioni di “Flores in su Granito” organizzate delle compagne del gruppo Viche Viche scoprii che Sisinnio era morto da poco. Mi dispiacque molto, sarebbe stata una gioia rievocare la sua munifica cena.. e l’estate del 1969 con lui. L’estate dell’inizio della rivoluzione mancata.