SCAGLIE DI
SUDAMERICA: VIAGGIO DALL’ATLANTICO AL PACIFICO (5- fine)
Scorcio di Sucre scendendo dalla Piazza della Recoleta
BOLIVIA 2
Da Potosí scendo
a Sucre, altra bella città a
saliscendi, altre belle chiese candide e altro barocco. Mi incantano due musei
superlativi per interesse culturale, storico e artistico: il Museo Etnologico (http://www.musef.org.bo/)
e il Museo di Arte Tessile (alcune diapositive di tripadvisor: https://www.youtube.com/watch?v=fKTdntL_jeE,
ben pallido riflesso della ricchezza dell’esposizione).
Il primo ha maschere
di una bellezza, inventiva e originalità travolgenti: tutti i personaggi delle
colonizzazione vi hanno spazio, trasfigurati sbeffeggiati sublimati. Ma vi si celebra
soprattutto la centralità delle divinità ancestrali e l’ipostatizzazione degli
antenati, il cuore di tutta la religiosità tradizionale in ogni latitudine,
dall’Oceania alle Ande, dal Sahel alle foreste pluviali. Molte le maschere
degli Añas, gli antenati: Aña è lo spirito tutelare dei morti: i
danzatori mascherati celebrano il ritorno degli antenati e la continuità del
lignaggio, la catena dell’essere che lega i vivi ai morti indissolubilmente. Mi
vengono in mente le danze dei revenants
(gli antenati che si reincarnano nei viventi attraverso le maschere ) cui ho
assistito in Benin: identico lo spirito e il significato. In Madagascar si
balla addirittura con i cadaveri dei
propri familiari estratti dai loro tumuli.
Una delle maschere/personaggi che
sbeffeggiano gli spagnoli si chiama pakhoci,
da pakho che significa “rosso”: si
sovrappone il colonizzatore paonazzo per il sole all’immagine del diavolo.
Pieno di scoperte anche il Museo di arte tessile indigena: un video racconta la protesta dei Chullpa Puchus, la minoranza andina più
numerosa. Si lamentano dell’ imposizione di usanze estranee che falsificano la loro identità
attraverso oggetti e ritmi alieni: le case tradizionali a pianta rotonda sono
diventate quadrate, i loro tetti di fibre di paglia intrecciate sono stati
sostituiti da lamiere che bollono nel mezzogiorno e gelano di notte, i sistemi ancestrali di
irrigazione degli Uru Chipayas non
esistono più. Questi ultimi erano i più antichi abitanti delle zone andine
dell’ovest della Bolivia, intorno al Rio Lauca, e la loro civiltà era basata
sul controllo dell’irrigazione (la zona di S. Ana de Chipaya è stata studiata
da due grandi etnologi, Alfred Métraux
e Nathan Wachtel, in epoche diverse:
1930 il primo, anni 1970-80 il secondo). Gli Uru Chipayas hanno un
peculiare mito delle origini che ricorda
molto l’episodio biblico dell’arca di Noè: essi narrano che la loro progenie è
così antica che i loro antenati preesistevano addirittura all’apparizione del
sole, per cui le loro capanne erano orientate a est, ignorando che il sole
sarebbe sorto da quel punto dell’orizzonte. Un bel giorno ecco che spunta il
sole e incenerisce e distrugge e brucia tutti coloro che si affacciano il mattino
dalla capanna. Sopravvive soltanto una coppia che miracolosamente perpetuerà la
loro stirpe.
Nei meravigliosi arazzi della cultura Jalq’a , che diventano veri e propri affreschi cosmologici, si
rappresenta e celebra una visione tripartita del mondo: il mondo superiore (hanan pacha), il mondo terreno (kay pacha) e il mondo infero, sotterraneo (ukhu pacha). Per illustrare
visivamente questa tripartizione esistono canoni figurativi e colori deputati,
per cui ad esempio il mondo infero è raffigurato e intessuto solo con i colori
rosso fiamma e nero carbone, mentre il mondo terreno ha tenui colori
tra ocra e cilestrino: i disegni sono minutissimi e perfetti, donne
spesso semi-analfabete hanno una maestria ineguagliabile e raffinatissima
nell’intrecciare e annodare migliaia di fili per dar vita a questi riquadri dove è racchiuso il loro universo
mentale e spirituale. La complessità dei tracciati è enorme, mind-blowing dicono gli inglesi, ti fa
saltare il cervello. Gli arazzi sono di dimensioni contenute, devono stare in povere capanne di pochi metri quadrati e i telai che li tendono sono fatti di rami rozzamente tagliati. Quelle che mi intrigano sommamente sono le raffigurazioni del mondo di sotto, dell’ukhu pacha: una specie di enciclopedia dell’inconscio a mio avviso, anche se una delle impiegate del museo non concorda.: ci sono gli spiritelli, specie di elfi, chiamati khurus, che le tessitrici chiamano familiarmente con un diminutivo: khuritos, ci sono dei demoni , i supays, e poi il gobbo, el jorobado. I tessuti si chiamano aqsu. Il più bello di tutti è ancora teso sul suo telaio originale di rami nodosi: l’autrice è morta appena dopo averlo terminato, avrebbe voluto venderlo per realizzare un suo sogno segreto. Il Museo da alcuni anni organizza corsi per coltivare e sviluppare quest’arte tradizionale, e con successo, fornendo a centinaia di famiglie la possibilità di mantenersi e migliorare il proprio standard di vita.
Da Sucre prendo un aereo per Cochabamba, e da lì l’autobus per Villa Tunari e il vicino Parque Machía, in direzione est alla volta di Santa Cruz, la zona più ricca (e reazionaria) della Bolivia, che non raggiungo. Nel Parco, al solito verdissimo umidissimo e caldissimo, degli animali decantati dalla brochure-réclame vedrò solo tante scimmie. Ma sono scimmie che non avevo mai visto, chiamate scimmie ragno per la lunga coda prensile. Il parco si sviluppa in altezza, ci si arrampica qualche centinaio di metri in una giungla gocciolante di acquerugiola fine finché si arriva al mirador. Molte scimmie sono sdraiate pacificamente sui sedili destinati ai turisti o giocano a rincorrersi di ramo in ramo. Un bel fiume si snoda sotto la foresta nella nebbiolina. Una scimmietta si precipita ad assaporare golosa l’orina della compagna: de gustibus.
Da Cochabamba salgo a Oruro,
di nuovo al freddo e a cercare un albergo dotato di stufette elettriche. E’
imminente il famoso carnevale, ma faccio fatica a trovare una stanza e solo per
il venerdì sera, per sabato notte niente da fare, è inevitabile battere in ritirata e puntare a
nord ovest verso La Paz. Ecco alcune foto
della capitale, annidata in un avvallamento
con tentacoli che si protendono in ogni direzione su per i fianchi delle
montagne attorno, è una città aggrappata alle pareti dei monti e sovrastata da El Alto, che prima era un suo quartiere
e ora è municipio a sé.
Bellissimo il
Monastero di S. Francesco: una domenica pomeriggio mi inerpico su su tra bancarelle di patate fino a scorgere
finalmente il tramonto dietro la vetta dell’
Illimani, a
6438 mt di altezza, che ho gloriosamente di fronte. E infine risolvo l’enigma del nome
del gruppo di canzoni rivoluzionarie più famoso del mondo degli anni ’70, mentre
ammiro l’Inti Illimani in compagnia di un bel pappagallo che si affaccia a
una vicina finestra.: gli Inti Illimani
sono il Sole dell’Illimani, Inti
in quechua significa sole, e Illimani
è il nome della montagna! Mi
riecheggiano all’orecchio mentre scendo verso il buio le parole del canto del
famoso complesso, il ritornello: “Venceremos, venceremos, mil cadenas habrá que
romper….”.
Un altro museo superlativo tra quelli che visito a La Paz è
quello degli strumenti musicali tradizionali, dove ascolto anche un sabato sera
un eccezionale concerto del Teatro del
Charango: il charango è una specie di chitarra tradizionale e i
suonatori esibiscono una gamma di
esemplari che va da un minuscolo aggeggio di pochi centimetri a un charango double face con un numero di corde diverso, creazione
personale degli artisti. La voce melodiosa di Dagmar Dümchen è ammaliante, una donna bellissima sul cui volto dai
lineamenti nobili e decisi si legge una vita interiore intensa e vibrante, e un grande amore per la musica
cui si abbandona con gli occhi socchiusi (un bel video anche se molto breve si
trova a questo indirizzo. https://www.youtube.com/watch?v=8PDD7bDVJJY)
La visita organizzata da un’ Agenzia turistica all’antichissimo sito archeologico di Tihuanaco è complessa : la guida è
bravissima e coltissima (forse troppo) ma
la mia scarsa dimestichezza con le culture ancestrali andine e la frettolosa lettura della Lonely Planet, parca di spiegazioni storiche, si rivelano un
handicap strutturale. Il fatto di dover
seguire ritmi incalzanti per non perdere le tracce del gruppo mi impedisce la dovuta concentrazione. Faccio
fotografie ma la storia dei vari templi
e delle statue, con la famosissima Puerta del Sol , la vado a ripassare la sera su Wikipedia. Se ci andate,
preparatevi in anticipo come per un esame!
L’ultima tappa boliviana è Copacabana, che non può non soggiogare l’animo e non ispirare il desiderio di
tornarvi almeno una volta all’anno. E’ un cittadina piccola e deliziosa,
distesa lungo le rive dell’estremità sud-est del lago Titicaca
sacro al dio Inca Wiracocha, una
limpida distesa azzurra che si estende
tra dolci colline verdeggianti fino
all’orizzonte a perdita d’occhio, per cui
assomiglia a un mare lievitato a 3700 mt. Per arrivarci scendiamo
dall’autobus per attraversare un braccio del lago da Desaguadero alla penisola di Copacabana e saliamo su una lancia. Il buffo è che anche
l’autobus vuoto sale su un altro traghetto, lo vediamo arrivare traballante sul
filo della corrente; ad ogni oscillazione temo per i bagagli a bordo.
Naturalmente la prima visita obbligata è
alla famosa Isla del Sol, la cui
parte nord è quasi tutta un sacrario Inca costellata di monumenti. La traversata in un barcone piuttosto anziano dura
un’ora e mezzo, che trascorre
rapidissima in conversazione con un cineoperatore olandese e una signora che abita sull’isola e vive come
quasi tutti qui di turismo vendendo i suoi manufatti (ha un fagotto enorme,
come tutte le donne che ho visto in Bolivia, che lo caricano con nonchalance
sulla schiena e ci fanno chilometri). Lei sferruzza velocemente con vari ferretti molto corti e
ci racconta una storia terribile del tempo della dittatura: una notte arrivarono sull’isola dei
soldati che volevano snidare dei ribelli
e ammazzare tutti coloro che erano sospettati di appoggiarli. Chi si salvò lo
fece scivolando verso la riva nell’oscurità, poi tagliando i corti rami di un
alberello che nell’acqua si gonfiano e galleggiano, trasformandosi in minuscole
zattere; su di esse gli scampati all’eccidio vogarono con le braccia verso la
salvezza. Come la maggioranza dei boliviani anche lei rifiuta di farsi fotografare (si noterà che le
mie foto di donne sono quasi tutte di schiena o di sguincio).
L’unica donna che
invece si mette quasi in posa è l’anziana guardiana della Piedra Sagrada del Inca, uno dei monumenti dell’area nord, che
quando chiedo indicazioni sul sentiero da seguire per vederla mi dice:”Vieni,
te la mostro io, è nel mio orto”. Difatti in fondo a un giardino di pochi metri
quadrati, alto due metri e largo di meno, massiccio, biancastro, troneggia un
masso. Lei si siede su una panca di fronte alla pietra e racconta:” Gli Inca
avevano tre leggi: Amalluya, Amakella,
Amasua [1]
( non mentire, non rubare, non oziare). Chi trasgrediva veniva “inforcato” (ahorcado, dice) con una corda (soga) contro questa pietra. Oggi ogni
anno quando viene il giorno di S. Andrea, il 29 novembre, si fa una gran festa,
si sacrifica un llama, il corpo si
seppellisce, il sangue è offerto alla Pachamama,(
la madre terra)”. Dopo i dovuti ringraziamenti, la lascio e proseguo verso il
labirinto, che però non raggiungo per il
timore di perdere la barca che salpa per la parte sud dell’isola alle 13.30.
Dopo una mezz’ora di
brivido per rischio naufragio (il motore arranca, il vento è forte e il
nocchiero propone un attracco di fortuna a mezza strada che viene declinato) si
sbarca alla parte sud, il cui molo è sovrastato da una altissima antica
scalinata, anche questa ovviamente battezzata “ scala dell’Inca”. Raggiunta la
cima, presa da incantamento per il
panorama e l’aura di sacralità che spira dal paesaggio, soccombo
all’estasi: appoggio il mio giubbetto di
pelle a terra per fare una foto e lo abbandono là, dimentica di tutto fuorché
di guardare e camminare. Rientrata in me grazie a zaffate di venticello fresco,
corro a cercare il mio prezioso e unico indumento pesante, ma ovviamente non lo ritrovo.
Al ritorno a Copacabana mi
precipito a comperare un giaccone di lana, ce n’è un’ abbondante scelta a prezzi
imbattibili. Lutto serale per il compianto giubbetto dotato di tasche e
taschini segreti da viaggio, con la consolazione che qualche ragazzino avrà
celebrato la mia dimenticanza. Evito prudentemente di imbarcarmi per la Isla de la Luna e mi sfogo con camminate
lungo il lago: a Kusijata, villaggio
di pescatori e contadini, scopro un minuscolo museo le cui custodi sono due
bambine rispettivamente di otto e dodici anni, che alle 17.30 di sera mi aprono
il grosso portone e aspettano con aria professionale che ammiri i reperti, non
eccezionali a parte una mummia molto ben conservata. La cosa più interessante è
una fontana antichissima nel giardino incolto chiamata, indovinate, Fontana del Inca, all’origine di un
acquedotto del 1500, da cui sgorga un’acqua limpida e fredda con cui riempio
subito la borraccia. Dopo Kusijata, visito una isola galleggiante: ce ne sono
molte sul Titicaca, costruite con una canna locale chiamata totora, che si usa anche per fare lunghe
canoe. Tutto su queste isolette è costruito di totora. Abbondano le trote.
Lascio Copacabana con rimpianto per raggiungere il Perù e
comprare ad Arequipa il biglietto di
ritorno. Arequipa è una città coloniale
elegante e animata, dominata da vulcani, che però proprio a febbraio sono quasi
sempre invisibili grazie a basse nuvole vaganti. Bellissima la Chiesa della Compagnia di Gesù
e stupefacente per bellezza straripante vitalità e sensualità la Cappella di S.
Ignazio di Loyola, che rappresenta un Paradiso Terrestre indigeno,
un’esplosione di colori tra foglie giganti rami intricati uccelli variopinti
animali di ogni tipo, il tutto intrecciato e avvinto in una luce dorata. Trovo
interessantissimi due Conventi. Il primo, ex-convento di S. Catalina (Caterina
da Siena) è quasi una città: le celle delle novizie sono strette, spoglie e dimesse,
in contrasto con quelle della badessa e delle monache più altolocate,
ammobiliate anche con un pianoforte fatto giungere appositamente dall’Europa,
letti più comodi e larghi, belle suppellettili. Questa é la cucina.L’altro Convento , di S. Teresa de Ávila, è invece ancora tale: qua e là il visitatore è arrestato da targhe con la dicitura: Clausura. Molto particolareggiata e avvincente la ricostruzione della vita e delle illuminazioni di S. Teresa, la fondatrice dell’ordine delle Carmelitane Scalze, e grande intellettuale, poetessa e scrittrice, oltre che efficace riformatrice e agitatrice sociale. Nel 1562 ebbe la rivelazione che le cambiò la vita: el arrobamiento, come la definì: estasi, stato di beatitudine. Sempre più spesso preda degli arrobamientos, sentiva il dardo di Cristo che le attraversava il corpo: parlò di una acuta sensazione di transverberación, intraducibile[2]. Personalmente la ritengo anche una maestra della letteratura spagnola insieme a S. Juan de La Cruz, altro mistico straordinario. Tipica dell’intreccio boliviano di culture ecco una raffigurazione meticcia dell’arcangelo Gabriele: indossa un copricapo Iinca, il Mascaipacha, incoronato da un enorme pennacchio! Un arcangelo meteco!
Il lungo tragitto da Arequipa a Nazca verso nord dispiega un paesaggio lunare, salvo rari tratti coltivati e boschetti di palme, ma più spesso punteggiato da cactus e un’erbetta ispida. A La Joya, cittadina incolore, vedo frequenti cartelli: “Compro cochinilla, fresca, seca y en polvo”[3]. Non ci deve essere molto altro da vendere a parte pesce e crostacei. Il Pacifico è chiazzato da lunghe spume di inquinamento per centinaia d chilometri. Villaggi di pescatori, deserto, villaggi, deserto, per ore.
Nazca mi delude in vari modi: mi sembrava che l’oceano fosse a breve distanza, invece ci vuole un’ora e mezzo per raggiungerlo, gli orari del bus sono sommamente incerti, è giocoforza rinunciarvi se non si vuole perdere tutta la giornata ( inoltre il ritorno non è assicurato entro la sera). Invece prenoto un posto sul Cessna di una delle compagnie che sorvolano le famose linee incise sulla terra del deserto scabro e gibboso da sconosciuti artisti cinquecento anni fa e rimasti miracolosamente intatti. Rappresentano fantastici animali e bislacchi personaggi: il più famoso è il cosiddetto “aviatore”. Dato che sono giganteschi, pare che la cosa migliore sia ammirarli dall’alto e non dal mirador a pochi chilometri dalla città. Seleziono tra le tante agenzie turistiche quella che mi sembra più affidabile dato che ci sono anche stati incidenti. Il volo dura poco più di 30 minuti, ma appena riesco a identificare il disegno sottostante e mi appresto a fotografarlo, l’aereo vira bruscamente e non riesco a fare che fotografie indecifrabili con confuse di strisce di sabbia, di cui non fornisco dimostrazione I disegni si vedono nettamente su molti siti web, come questo: https://web.infinito.it/utenti/m/mysteryworld/nazca.html . Scendo dal Cessna abbastanza arrabbiata e con un indefinibile e leggero mal di stomaco, el mareo. Per consolarmi vado a nuotare in piscina, per la bellezza di 10 dollari di biglietto.
Ancora mi aspettano centinaia di km di deserto da Nazca a
Lima, e questa volta con contorno di tempesta di sabbia dopo Paracas. L’ultima
fotografia del viaggio è un vortice biancastro di polvere e vento sull’asfalto.
Se la Bolivia riuscirà ad avere la meglio nel duro
contenzioso con il Cile rispetto alla sua rivendicazione di riavere l’accesso
al Pacifico perduto con il Trattato del 1904, e se il Movimiento al Socialismo si sbarazzerà della zavorra dei residui clientelismi e supererà la prova del potere prolungato, realizzando una vera partecipazione
e dialettica democratica dal basso, vi sarà sulla terra un splendido paese, ecologicamente, umanamente e politicamente unico, dove si gusterà il buen vivir, un ideale al cuore delle culture andine. La Pachamama sarà soddisfatta.