SCAGLIE DI SUDAMERICA: VIAGGIO
DALL’ATLANTICO AL PACIFICO (4)
Strada Tupiza- Potosí
BOLIVIA 1
Attraverso
la frontiera argentino-boliviana in
pochi minuti e rimango estasiata per la
sveltezza delle formalità: non a caso. Infatti nel mio accesso di entusiasmo salto la dogana boliviana, non ben segnalata, e vado
oltre: non c’è nessun controllo al punto di transito dal ponte al mercato della
città di frontiera di Villazón. Peccato: mi scoprirò immigrata clandestina sul
treno che da Villazón conduce a Tupiza, e la distrazione mi costerà 40 euro di
multa, dieci giorni dopo, a Potosí.
Lo stradone
polveroso che attraversa la città è tutto un brulicare di gente, sabato è il
giorno del mercato ebdomadario: negozietti che straripano di merci varie,
bancarelle ovunque, merciaie ambulanti accoccolate a terra con la mercanzia
sparpagliata attorno, una vera esplosione di folclore locale, uno dei tratti più affascinanti e costanti del
paese, che mi conquista immediatamente. Le donne vestono grandi gonne fino ai
polpacci arricciate in vita, le cosiddette polleras
, camiciole e grembiule, e in testa bombette o sombreros a tese discrete, mentre le lunghe
trecce nerissime sobbalzano sulla schiena, domate da nastrini o lacci che le
mantengono rigorosamente parallele. E’
amore a prima vista, per un mese mi sono sempre sentita nel luogo giusto al
momento giusto, a mio agio. Anche da clandestina: per fortuna in Bolivia non
esistono i C.I.E.
Il treno
che attraversa il sud della Bolivia da Villazón a Oruro è un prezioso lascito dell’industrialismo del
novecento e della necessità di
trasportare l’argento e lo stagno da Potosí e da Oruro (in Bolivia) fino
a Arica e Antofagasta ( in Cile). Ci sono due classi, ordinaria e di lusso, e
ambedue costano molto di più dell’autobus. In compenso, c’è anche un vagone ristorante, ma il
privilegio è riservato ai viaggiatori “a lunga percorrenza”, quindi non a me
che mi fermo dopo tre ore a Tupiza, il cui scenario di pareti e torrioni rocciosi rosseggianti, intervallati
da chiome di molle [1]verdissime,
è preannunciato dalle gole e vallate percorse da torrenti impetuosi
che si ammirano dai finestrini del treno, a destra e a manca.
E’ una zona
molto battuta dal turismo internazionale
sportivo, giovane, e il trampolino di lancio per escursioni nel sud-ovest boliviano, costellato di
attrazioni “imperdibili”, come la laguna colorata, delle sorgenti termali scenografiche, un vulcano, e
infine il salar di Uyuni, un ex mare interno disseccato che si è
trasformato in una distesa immensa di abbacinante biancore e che nella stagione
delle piogge appare come uno specchio
gigantesco, ecologicamente fragilissimo.
Che non ammirerò: sono dissuasa da uno strano mal di testa mattutino che
si rivela segnale di pressione arteriosa in crescita al limite del patologico.
Appunto, al limite: per non oltrepassarlo devo rinunciare a passeggiate a
cavallo (peraltro difficoltose per la quantità di fango, le piogge sono
eccezionalmente abbondanti quest’anno) e a spedizioni in Land Rover nei luoghi
fantasmagorici decantati dalle agenzie turistiche. Per fortuna, prima di
soccombere, riesco a fare almeno due passeggiate, una alla quebrada[2]
Palala e l’altra, più impegnativa, al Canyon del Inca attraverso la bellissima
Valle de los Machos, guglie falliche
di un rosso sfolgorante che si restringono
progressivamente tra svolte brusche fino a incunearsi nel canyon. Purtroppo la fotocamera mi fa cilecca e la foto a fianco non é mia ma dei Tupiza Tours.
Notevole un incontro domenicale con il
giornalaio della piazza principale: è un cinefilo esperto di cinema italiano e conosce tutti i film di Pasolini e Antonioni :
inaudito!
La seconda
tappa boliviana è Potosí, a più di 4000 metri: ormai sono fornita di sorochi pills, capsule contro il mal di montagna e
mi sono abituata a succhiare caramelle di miele e coca e a consumare
giornalmente the di foglie di coca fresche, tradizionale rimedio per fatica e
mal d’altura (amarissimo). Potosí è impressionante
sin dall’arrivo: l’autobus sale fino a 4300 mt e attraversa scendendo verso il
centro città i quartieri abitati dai minatori, sparpagliati lungo tutto il
fianco del famoso Cerro Rico, la
montagna che racchiude le miniere più preziose della Bolivia e che ha riversato
il valore di centinaia di migliaia di tonnellate d’argento nelle casseforti
delle monarchie europee ( e dei pirati)[3].
Le baracche hanno tetti di calamina,
stagno ondulato che riluce ai riflessi di un sole bruciante quando occhieggia
da nuvole gonfie di pioggia: sembra un formicaio disabitato, non si vede
nessuno in giro. Il Cerro ha un colore violetto ed è perfettamente conico: raggiunge i
4700 mt. Fa freddo benché sia estate: la notte è gelida nella economica locanda dei Gesuiti. Cambio subito albergo la
mattina dopo e cerco un hotel che contempli riscaldamento almeno serale.
Anche oggi
più del 70% della città vive sulle miniere, direttamente o
indirettamente: o si ha in famiglia chi lavora nelle gallerie (ben 5000), o si
vive di turismo. Il tassista che mi porta in albergo dice di aver lavorato in miniera due anni prima di
riuscire a cambiare mestiere: e per fortuna. Si continua a morire di silicosi
dopo quindici o vent’anni di miniera, e tutte le persone con le quali parlo mi
confermano che le condizioni di lavoro sono durissime, né sono cambiate molto da che il M.A.S. , il Movimento al Socialismo del Presidente Evo Morales è al potere (2006). Su un muro di Potosí leggo: “nazionalizzare le miniere!”: infatti le
miniere sono in mani private dal 2000, mani di grandi società transnazionali o
di cooperative locali e padroncini, ex-minatori che hanno comperato delle
concessioni, oppure sono in concessione para-statale attraverso la COMIBOL, la Corporación Minera de Bolivia,
che non è un operatore diretto ma amministra la partecipazione statale in concessioni
minerarie e impianti metallurgici e industriali. L’alcoolismo è diffuso. Il
documentario: Minerita [4] (https://www.google.it/#q=documentario+%22Minerita%22)
visto recentemente grazie alla
distribuzione militante ad opera del GVC[5],
mostra una realtà anche più dura, al limite del disumano, di quanto potessi
immaginare; basti dire che le donne sole nelle baracche, la notte, per
difendersi da assalti e stupri, dormono tenendo in mano candelotti di dinamite,
che si vendono come caramelle in qualsiasi spaccio. Le donne di solito non
entrano in miniera, la “minerita” eponima del documentario vi si introduce
clandestinamente perché è l’unica che porta soldi a casa e non ne può fare a
meno. Tuttavia anche le donne hanno un ruolo produttivo legato alle miniere:
sono le palliris, siedono
all’imboccatura delle gallerie e spaccano con un martello per ore i pezzi di
roccia scartati dai minatori, che però contengono ancora preziosi frammenti di
stagno, che rivendono per sbarcare il lunario.
Tutte le
agenzie turistiche propongono escursioni di una giornata fuori e dentro le
miniere. Non mi piaceva l’idea di fare la turista in gallerie che spesso sono
la tomba o l’anticamera di essa per migliaia di esseri umani, costretti a
trascorrervi e consumarvi la gioventù e la salute dal dio della necessità. Consultando
un’agenzia ho chiesto di poter incontrare un gruppo di minatori fuori della
miniera e in modo diverso, per discutere con loro, o di poter parlare a dei
sindacalisti del settore. Evidentemente non c’era spazio per questa soluzione:
non se n’è fatto niente. Ho cercato in città una sede sindacale, inutilmente.
Sono solo riuscita a parlare con un padroncino, un sessantenne ex minatore che
ha in sub-appalto delle gallerie dove si estrae antimonio e stagno: la paga
massima per i minatori è di 200 USD al mese. Era domenica sera, puzzava di alcool e ho
declinato un invito al bar per approfondire l’argomento.
I minatori hanno una divinità tutelare,
tiranna e esigente, cui occorre regolarmente fare offerte propiziatorie di
foglie di coca, di tabacco o di aguardiente, una divinità atavica Inca, che i
missionari scambiarono per il demonio.
E’ rappresentato con fattezze mostruose e grottesche, priapiche: ecco
una effige che si trova dentro una delle gallerie delle miniere, coperta di
stelle filanti in segno di omaggio, tratta dal sito www.elrincondesele.com. A Cochabamba
ho comprato un libro di racconti sulle miniere, che tradurrò e pubblicherò su
queste pagine, tutto centrato su questa figura numinosa e maledetta: el Tio (Cuentos de la Mina, di Victor Montoya).
Se i minatori lo trascurano, ne pagano lo scotto con incidenti, smacchi o addirittura con la vita.
In cerca di
referenti sociali da intervistare, ho trovato in città una Società di Mutuo Soccorso (Sociedade Mútua Protectora), fondata nel 1916, che ha
circa 80 soci e non si occupa di minería:
è formata soprattutto da artigiani, età
media 18-45 anni, ed ha attività
assistenziali e sociali in caso di malattia di familiari dei soci e difficoltà
finanziarie dei pensionati (35 anni di anzianità); inoltre organizza feste e si
mantiene gestendo un bar al pianterreno.
Potosí non
la si può liquidare in pochi giorni: esercita un fascino sinistro e penetrante,
e ci trascorro una settimana. E’ anche una bella città: numerosissime chiese
sontuose, monasteri, un barocco debordante, quasi leccese, e la Casa de la Moneda, la Zecca più antica
del mondo, che però per principio mi rifiuto di visitare: il biglietto per gli
stranieri costa il quadruplo rispetto alla tariffa nazionale ( poco più di sei
euro, non ricordo, ma mi irrita l’idea). Le strade sono strette e lastricate
con ciottoli: balconcini e logge in ferro battuto sporgono ai lati, i portali
scolpiti, antichi, sono magnifici: unico tormento il passaggio frequente di
piccoli furgoni di trasporto urbano pubblico che sbuffano ventate di un fumo nerissimo e soffocante, che
appesta. Noto frequentissime targhe di studi di legulei. Litigiosità così
accesa?
Una mattina
di sole: mi avventuro al Ojo del Inca, una laguna a 3600 mt di
altezza a 40 km da Potosí, tra verdi
prati, dove si può fare una bella nuotata ammirando la cresta di montagne che
la attorniano: appena si addensano le nuvole, di corsa a vestirsi! Un custode mi sconsiglia seriamente di avvicinarmi al
centro dell’occhio: afferma che alcuni turisti sono stati misteriosamente
risucchiati al fondo. Nel dubbio mi attengo al suggerimento ma vedo parecchi
ragazzi sguazzare allegramente da riva a riva. Forse gli dei si incazzano solo
con qualcuno.
Il 26
gennaio assisto a lampi di lotta di classe: nella piazza principale, di fronte
alla Sede del Municipio, c’è un sit-in prevalentemente maschile, con
striscioni, mentre al lato opposto, di
fronte alla sede della Gubernación, ecco un sit-in di donne in pollera e sombrero. La protesta davanti
al Municipio è degli eventuales, che chiedono di essere assunti in pianta
stabile, mentre le donne accoccolate a terra con cartelli fatti in casa
chiedono un regadio, acqua per
irrigare i loro orti e poter produrre di più in modo da vendere le eccedenze al
mercato e superare l’autoconsumo. Appartengono a una comunità isolata di 70
famiglie, 350-400 persone in tutto, drenate dall’emigrazione verso l’Argentina,
dove i giovani vanno a raccogliere pomodori. Dicono che sono vari anni che
lottano per avere l’acqua.
A tutti
coloro che incontro e con cui ho occasione di parlare chiedo: dopo nove anni di
un governo socialista, che vantaggi per il popolo? Le risposte sono
discordanti: soddisfatti, soddisfatti con riserva, scettici e critici. Non mi
sembra che le classi sociali divergano molto: nessuno appartiene alla borghesia
agiata: un autista, un’ impiegata d’albergo, una custode di museo, un
piccolissimo imprenditore, un ragazzo laureato da poco che ha un’ officina di
riparazioni auto con il fratello., una guida turistica, un giornalaio. I
critici dicono che a parte alcune indubbie buone opere infrastrutturali, le
condizioni di vita di operai e contadini non sono migliorate in maniera
sensibile, e tanto meno nel settore minerario. La guida turistica a La Paz è la
persona più informata e anche la più accalorata fautrice delle politiche del
M.A.S : acquedotti, opere stradali (gli incidenti stradali sono una vera
iattura in molti stati sudamericani, data la geologia e le strade contorte ad
alta quota), sussidi, scuole, ospedali. I ministri addirittura si ammalano per
il duro lavoro, dice. Il più critico è il giornalaio che incontro a Copacabana:
secondo lui c’è un gran clientelismo, e tutta l’insistenza del Governo sulla
questione dello sbocco sul Pacifico è un diversivo per distogliere l’attenzione
dell’opinione pubblica dalle questioni interne. Di fatto, nonostante la grande
popolarità di Morales, nelle elezioni amministrative di fine marzo il M.A.S.
perderà importanti roccaforti, come la Gubernación
di La Paz e il Municipio di El Alto, la città satellite di La Paz. Invece
l’autista di Copacabana sul lago Titicaca è deciso: va molto meglio,
finalmente. L’economia cresce e il
boliviano, la valuta locale, è forte.
Avanti tutta? (cont.)
[1] Il Molle è anche chiamato albero del falso
pepe, è comunissimo in Bolivia e soprattutto ne vedo molti nei dintorni di
Tupiza; ha un fogliame delicato con foglioline alterne col bordo dentato,
ricordano un po’ i nostri salici. Sono molto eleganti, e le foglie emanano una
fragranza vagamente balsamica.
[2] Le “quebradas”
in questa area sono costituite dai letti riarsi di fiumane antiche, che
diventano sentieri, in genere costeggiati da alte pareti di rocce color carminio o violetto e ravvivate alla
base da alberi e piante.
[3] Vedi
Eduardo Galeano.
[4]
Letteralmente, piccola “minatrice”.
[5] Una
Organizzazione non governativa di cooperazione internazionale di Bologna.
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