SCAGLIE DI
SUDAMERICA: VIAGGIO DALL’ATLANTICO AL PACIFICO (3)
ARGENTINA
Attraversando da Salto il fiume Uruguay alla volta
dell’Argentina, si sbarca a Concordia. Che bel nome per una città di confine!
Ed è una cittadina gradevole e accogliente, che visito in una sola giornata
prima di partire la notte per Posada. Mentre vagolo la mattina presto, cercando
di orientarmi tra lungofiume e viadotti sulla base di indicazioni stradali contraddittorie, un jogger cui mi rivolgo
sperando in chiarimenti risolutivi si offre di accompagnarmi in auto al
Terminal a prendere in anticipo il biglietto dell’autobus (in anticipo per modo
di dire dato che siamo in periodo festivo e troverò un posto a prezzo non
modico per miracolo). Per la cronaca è tal Miguel, padre di famiglia cui ancora
oggi vanno i miei grati pensieri. Ho tutta la giornata per penzolare in centro:
musei importanti chiusi, tutti in ferie,
caldo notevole. Un museo del costume é
in allestimento, ci entro per passare il tempo e per curiosare: gratis
naturalmente. Ci sono varie collezioni
di mobilio, oggetti d’arte, e anche abiti dell’ottocento.
Poi vado ai giardini in cerca d’ ombra. E quello cos’è? Ho
davanti uno stranissimo albero, mai visto un tronco a fiaschetto, sembra un
Chianti dimagrito. Chiedo a un altro bighellone come si chiama, non lo sa, un
altro, idem: finché un tipo seduto sulla
panchina di fronte non fa con tono annoiato: “Se llama palo borracho” Chiaro!
Albero ubriaco. Mi piace moltissimo l’idea, ne vedrò parecchi altri nell’Argentina
del nord, ma non in Bolivia né in Paraguay o in Uruguay. Chissà perché.
Dopo la parentesi paraguaya (vedi puntata precedente), da
Posadas salgo verso Iguazú, già in passato scartata come meta a favore di Belo
Orizonte (le cascate di Iguazú sono il
punto di incontro tra Brasile. Paraguay e Argentina) e ora ineludibile icona
cui rendere omaggio. Il lungo dito dell’Argentina che si protende verso il
Brasile è lunghissimo, centinaia di km, quindi faccio tappa a S. Ignacio Mini,
altra reducción jesuítica tra la più celebri, e giustamente. Le rovine della chiesa
sono imponenti, riprodotto su ogni brochure il frammento di portale. Le
visito mentre piove a dirotto, nonostante il tempo inclemente spuntano turisti
ovunque, l’atmosfera incantata che aleggiava sulle reducciones jesuiticas del
Paraguay è ben lontana.
Altra tappa verso il nord a Eldorado, che sconsiglio: bollente,
squallida e carissimo l’unico hotel disponibile, masochisticamente ci passo San
Silvestro, cenando con panino e birra. E
infine Puerto Iguazú! Che sarà turistica alla nausea, ma per fortuna quando si è davanti alla cateratta
principale, un oceano d’acqua che rovina con scroscio assordante tra profili di foresta e tripudio di vencejos
(specie di rondini) che sorgono come dall’abisso e volteggiano verso il cielo
tra uno spolverio di miliardi di goccioline in una luce perlacea, si perde la
nozione di tempo, ci si sente come
risucchiati dalla visione; esisti solamente
tu e le cascate, non ti bagna la pioggia né reagisci agli spintoni né alle
pestate di piedi, resti imbambolata a
sgranare più che puoi gli occhi ad assorbire dentro, a inghiottire quel
paesaggio e portartelo appresso per sempre fino alla morte.
E’ un’emozione che
si rinnova anche se attutita durante tutta la giornata della visita al Parco de
Iguazú che comprende un lungo percorso nella foresta (addomesticata ) e la
contemplazione di innumerevoli altre cascate secondarie, o della stessa da
punti di vista diversi, un salire e scendere incessante per ore. Due cateratte
parallele si chiamano: le due sorelle; riesco a vedere un tucano che sfreccia
rapidissimo da chioma verde ad altra chioma, mentre molte altre volte ho fatto
un sacco di chilometri attirata dal miraggio di fantastici loros o aras o
appunto tucani che non si sono mai materializzati (ad esempio in Costa Rica). Esotici e meno poetici invece i coatie (mammiferi della famiglia dei Procionidi) che si affollano a rosicare i resti
degli spuntini dei turisti nei vari bar: alla fine ci inciampi e li maledici,
anche se il loro punto di vista è condivisibile.
Dopo Iguazú il mio itinerario prevede come prossima meta la
Bolivia, ma per arrivarci bisogna attraversare un bel po’ di Argentina: non che
abbia nulla contro gli argentini o il loro paese, anzi gentilissimi, paese
sconfinato e bellissimo, ma la cosa non mi alletta anche se dovrò bere il
calice sino alla feccia (cioè macinando migliaia di km di pianura fino alle
agognate montagne) perché: 1. c’è un’inflazione bestiale e io non porto mai
contante affidandomi al prelievo
regolare di valuta locale, ergo, i miei euro valgono sempre meno; 2. le banche
sono esosissime e caricano commissioni da usurai; infine, e comprensibilmente,
le tariffe degli hotel e dei ristoranti
si adeguano e dormire in stanza decenti
come mangiare in luoghi dove si usino le tovaglie e i tovaglioli ( e ci
sia anche un vino bevibile) mi costa notevolmente soprattutto sulle rotte
turistiche che a questo punto diventano ineluttabili. Quindi friggo di fretta ma…ars longa eccetera. Perché lungo il percorso è impossibile non fermarsi e
restare più giorni del previsto, impossibile non essere adescati dal fascino
discreto di Resistencia, non tentare di esplorare il Parco del Chaco o
trascurare Salta e la sua magnifica scoscesa regione, su fino a Jujui e alla frontiera con la Bolivia. E infatti
impiego quasi tre settimane per arrivarci.
Resistencia è la città delle sculture, secondo la Lonely
Planet. Certo, ma secondo me è piuttosto la città di Fernando el Perro (con la maiuscola) e del Fogón de los
Arrieros. E del personale d’albergo più
premuroso e accogliente che mai abbia incontrato. Già dal primo giro verso il
centro noto la presenza di numerosi cartelloni con l’immagine di un cane: penso sia la
pubblicità di un qualche prodotto per pets. Ma c’è molto testo sotto l’immagine
e incuriosita leggo la storia di Fernando el Perro (cane) con tanto di richiami
a siti internet e pagina FB. Provare per credere. Fernando arrivò a Resistencia a inizio anni 1950 in qualità di randagio
qualunque, ma fu presto adottato da tutti gli abitanti per le sue qualità di
simpatia e intelligenza, e morto a inizio anni ’60 divenne una leggenda. E’
inestricabilmente legato ad un’altra attrazione della città, un luogo che penso
sia difficile trovare altrove, il “Fogón de los Arrieros”, letteralmente “ il
bivacco dei vaccari”, che da semplice abitazione del fondatore Aldo Boglietti
(ovvia ascendenza italiana) si trasformò
presto in luogo di ritrovo e crocevia culturale non solo della intellighenzia
locale ma fulcro e crogiuolo di una vastissima rete di rapporti umani e intellettuali
internazionali.
Aldo era arrivato da Rosario a Resistencia come rappresentante delle
Aerolineas Argentinas e presto la sua
casa divenne luogo di incontro di artisti, scrittori, perditempo, giornalisti,
viaggiatori. Le pareti raccontano decenni di vita vissuta intensamente da Aldo
e dai tanti che vi arrivarono e soggiornarono: murales, sculture, quadri,
oggetti tra i più disparati, anche un’enorme elica e un paio di scarponi che
penzolano da un chiodo, articoli di giornale, riviste, libri dappertutto,
cartoline, statuette esotiche, specchi, pianoforte
e altri strumenti musicali, detti memorabili affissi in giro.
La porta d’ingresso era sempre aperta, non c’era chiave; una
unica regola era scrupolosamente osservata (anche oggi che il Fogón è diventato
un museo): mentre l’accesso al piano terra e al giardino erano liberi a
qualsiasi ora, il primo piano era privato e nessuno varcava la scala a spirale
di legno senza l’assenso del padrone di casa.
In fondo al giardino
un cancello chiuso protegge le tombe del fondatore del Fogón e dei suoi amici
più stretti: una grande scritta campeggia in alto: La muerte es necessaria: oxalá mueran todos! ( oxalá significa speriamo che): ironia usque ad mortem.
Fernando era un fedele frequentatore del circolo,
e pare che nelle serate di musica esprimesse la sua approvazione o il suo
disappunto con competenza e abbaiasse disgustato dopo una stecca. Di fronte
all’ingresso del museo c’è la sua tomba e un monumento commemorativo (in alto, stile arlecchino). Qui accanto, il cimiterio degli "arrieros".
Da Resistencia si può visitare il Parco Nacional del Chaco
prendendo un autobus che in 3 ore ti deposita in un villaggio ( Colonia Elisa), da
dove devi trovare un mezzo per arrivare, a qualche km di distanza, al Parco.
Senza un veicolo proprio la visita necessita di almeno due gg. Trovo fortunatamente
da dormire in una specie di hacienda piuttosto selvaggia situata a 500 mt
dall’ingresso del parco, gestita da due strani individui. Uno é il manager e
l’altro il suo schiavetto (Martin ), che si occupa non solo di pulire l’unica stanza
per gli ospiti, ma anche di mantenere presentabile un facsimile di bar-stanza
da pranzo ( sedie mezzo sfondate e un tavolo malconcio) e curare gli animali:
oche, porci, cavalli, mucche. Una pozza di acqua sporca aspira al rango di
piscina. Nonostante miliardi di zanzare sono sopravvissuta alla notte: zanzariere queste sconosciute. Il Parco
esibisce molti quebrachos , alberi pregiati per il legno molto resistente, fiumiciattoli
coperti di vegetazione, farfalle, ma quanto ad animali di stazza maggiore zero,
sembrano rintanati giustamente chez soi
dato il sole cocente.
Un altro parco che forse non valeva la fatica
fatta per arrivarci. Antropologicamente interessante però il contesto,
isolamento notevole, non mi stupisco che ogni notte i due compari della locanda
passino ore al bar di Colonia Elisa e abbandonino gli ospiti alle stelle o al
maltempo. Con due allegri botoli .
Da Resistencia a Salta ci sono 13 ore buone (in notturno )
di autobus a due piani, mi tocca sempre il piano superiore che oscilla ed ha le
cosiddette semi-camas, i semi-letti , poltrone alquanto scomode. Per vicino di
semi-cama ho un grasso contrabbandiere argentino-boliviano, utile per le indicazioni che prodiga sulle strade da evitare in Bolivia perché pericolose(non
nel senso poliziesco) e anche simpatico, però ingestibile nottetempo, dato che
si mette comodo e travalica i limiti del sedile in dotazione. In più russa
scompostamente. Saluto l’alba con emozione e immenso sollievo. Anche perché
dopo migliaia di km piattissimi si intravvedono all’orizzonte dorsi montagnosi.
A Salta dopo 24 ore di riposo totale visito il Museo Archeologico di Alta Montagna.
Il nome mi sembra strano, ed effettivamente è unico. Rigorosamente proibito
fotografare, quindi rimando al sito per le immagini, che però mi sembra rendano
ben poco la ricchezza e il fascino dell’esposizione (www. maam.gob.ar). Esposizione che comprende una vasta introduzione all’ecologia e alle culture
andine della regione e una grande dovizia di reperti rarissimi di tessuti,
oggetti di uso comune incaici e preincaici, abiti, calzature, e infine le
mummie di fanciulli e fanciulle del luogo trovati a 6700 mt nel 1999 con una
spedizione di esperti al vulcano Llullaillaco. C’è un pannello che si dilunga
sulla possibile etimologia del nome: llulla significa bugia in quechua, la
lingua ufficiale dell’impero. Era una montagna sacra cosparsa di adoratorios
(altari) fatti di mucchi di pietra ( e mucchi di pietra si vedono ancora oggi
un po’ ovunque sulle montagne boliviane,
forse anche segnaletica povera). C’erano anche piccoli edifici per rituali e
offerte agli dei: nella Cordigliera intorno a Salta ce ne sono 200, oltre a
circa 40 chozas, piccole abitazioni con la porta sempre orientata a est,
costruite con terra, paglia e fibre di cactus, rivestite di intonaco. E’ forse
bene ricordare che gli Inca arrivarono nell’attuale Argentina dal nord solo nel
1400 e che in poco più di un secolo, fino al fatidico 1532, l’inizio della fine
(primo scontro tra Atahualpa e Pizarro), costruirono un impero di quasi 2 milioni
di km2 che andava dalla Colombia fino a
Cile e includeva parti degli attuali stati di Ecuador, Perù, Bolivia e
Argentina. Le quattro mummie sono state
trovate quasi intatte dopo 5 secoli, sepolte accanto c’erano bamboline d’oro,
d’argento e di spondylus , un mollusco bivalve la cui conchiglia fu ampiamente
usata dagli Inca sia ritualmente sia macinata come materiale da costruzione.
I bambini e le
fanciulle furono sepolti vivi: la sepoltura era l’ultima fase di un lunghissimo
percorso rituale che includeva la scelta di giovinetti e giovinette dalla
bellezza intatta, perfetti, il loro viaggio a Cusco e il loro sposalizio
simbolico con altrettanti soggetti eletti, sposalizio che intendeva celebrare
l’unità dalle quattro direzioni dell’Impero e delle decine di culture e etnie
che lo componevano, il loro ritorno e poi la grande cerimonia finale alla
conclusione della quale i prescelti
erano “inviati come messaggeri” perché si riunificassero agli antenati della stirpe. Si faceva bere
loro della chicha, bevanda alcolica distillata dal mais, e una volta
addormentati erano sepolti con accanto un ricco corredo. Soltanto due delle mummie sono in mostra, e
sono veramente impressionanti, tanto sono ben conservati pelle, capelli, mani,
abiti. Commoventi i sandaletti, mostrati
anche in altre teche: si spiega che per salire a quelle altezze si cucivano
vari strati di pellami per irrobustire e isolare le suole e si intrecciavano da
5 a 8 strati di lana per proteggere il piede: la cucitura si faceva con capelli
umani, molto preziosi, il tutto aveva una valenza simbolica. Museo
stupefacente, ma per ragioni di conservazione dei reperti la temperatura è glaciale, da alta montagna:
peccato che fuori si sia vicino ai 40° centigradi e si arrivi impreparati
all’escursione termica. Se ci andrete, siete avvisati. L'immagine l'ho trovata nel web e mostra la cosiddetta "bambina del fulmine", perché fu colpita dalla saetta dopo essere stata sepolta (www.lettera43.it).
La regione a nord di Salta è spettacolare e molto visitata:
la Quebrada di Cafayate, la Quebrada di Humahuaca, le valli a sud e a nord di
Jujuy sono una sequenza di larghe vallate e gole più o meno anguste le cui pareti esibiscono
gradazioni di colore fantasmagoriche, dal violetto al grigio all’amaranto al
rosato (quebrada significa spaccatura, rottura), punteggiate di enormi cactus e
rocce che sembrano sculture bizzarre. Magnifica anche la regione di Tilcara
dove vedo per la prima volta stuoli di llama, e in cima a un’erta sassosa si
raggiunge la famosa pukará, una fortezza di pietra precolombina.Finalmente raggiungo la fredda La Quiaca e la
sospirata frontiera: un sabato mattina attraverso il ponte che congiunge (o
divide) i due paesi ed ecco lo
striscione: Bienvenidos en Bolivia!
Molto benvenuti in Argentina e Sudamerica amici italiani! Ce ne sono posti fantastici e della fauna autoctona splendida. Cibo squisito e vini distinti. Ma soppratutto ce ne sono delle persone amichevoli che vi farano sentire benvenuti. Visitate il mio sito web dove troverete delle dritte in italiano: https://www.argtour.com/index-it.html
RispondiEliminaBuon viaggio!